“I clowns” di Federico Fellini: riso amaro
“Appena hai formulato un pensiero serio, ridici sopra” diceva il celebre filosofo cinese Lao Tse. Questo famoso aforisma, apparentemente assai lontano dal mondo barocco e visionario di Federico Fellini, costituiva invece per il grande cineasta riminese il compendio perfetto delle due figure di pagliaccio più note: il Clown Bianco e l’Augusto. Come egli stesso li descrisse in Fare un film, il Clown Bianco “è simbolo d’eleganza, armonia, intelligenza”, e per questo vive il suo rapporto con la realtà in maniera lucida, obbedendo alle leggi in maniera rigorosa e moralistica. Proprio questo conformismo esasperato genera la reazione del suo inseparabile compagno, l’Augusto, che, al contrario, vive in conflitto con tale perfezione, si ubriaca e agisce in continua ribellione nei confronti di tutto quanto è sensato, razionale, “giusto”, contrapponendo al’ordine costituito le sue urla, le sue boccacce, il suo perpetuo sberleffo. Il Clown Bianco rappresenterebbe quindi, il “pensiero serio” del quale l’Augusto “ride”.
Collocato più o meno alla metà dell’itinerario filmico di Fellini, appena prima del trittico di capolavori formato da Amarcord, Roma e Casanova, I clowns è un’opera che, ad opinione di chi scrive, è stata ingiustamente bollata da buona parte dei critici come un prodotto “minore”. È invece uno dei suoi film più liberi e personali. Sebbene nato un po’ per caso e pensato per la TV, in bilico tra il documentario e il film di finzione, I clowns rappresenta, in parte, una sorta di prologo di Amarcord, la rivisitazione del momento dell’infanzia del regista in cui nacque e si sviluppò il suo amore per lo spettacolo circense ed i suoi eccentrici protagonisti. Il film descrive la nascita della figura clownesca, tanto cara al maestro de La dolce vita, andando alla ricerca e intervistando alcuni famosi attori che, nel corso dei decenni, hanno incarnato celebri figure di “clown bianchi” e “augusti”, ma è anche un’occasione per far scorrere in passerella alcune singolarissime figure della fanciullezza del regista, le quali vengono presentate come dei “clown ideali” per caratteristiche, comportamenti e fattezze.
Proprio la disamina e l’osservazione di questi strambi e inquietanti freaks di provincia, come la monaca nana o il mutilato della Grande Guerra, il lubrico Giovannone o il “farfuglione” Giudizio, consente di riflettere sull’ambiguità insita nella figura del pagliaccio, personaggio portatore di riso ma imbevuto, al contempo, di cattiveria, essere goliardico ma non privo di crudeltà. In questo senso, nel bellissimo e terrificante horror La casa dei mille corpi (2003), diretto dal nuovo maestro dell’horror statunitense Rob Zombie, si arriverà ad una versione tutta carnale e mefitica del clown, spingendone la ferocia diabolica sino all’omicidio con il personaggio di Capitan Spaulding interpretato da Sid Haig.
L’accostamento con il film d’esordio di Zombie, per quanto estremo, serve a sottolineare come la morte sia presenza contigua e continua anche nel film di Fellini e intride due fra le più belle sequenze di questo capolavoro sommerso, che sono due momenti di cinema assoluto. La prima è il funerale del clown Fischietto, un Augusto, sublime e perturbante ghigno nei confronti del “tristo mietitore”. In questa scena, il decesso del personaggio-clown e la veglia del suo cadavere sono spogliati di ogni solennità fino alla violenta dissacrazione del suo cadavere da parte della compagnia dei clown “confratelli”.
L’altra sequenza è il lirico, meraviglioso finale, uno dei più belli del cinema (non solo) felliniano, quando il clown superstite chiama a gran voce, ma inutilmente, il collega defunto Frou Frou. Quando gli viene detto che è morto, egli ha allora l’idea di evocarlo attraverso il suono della tromba, come era solito fare in occasione del loro “numero”. E allora Frou-Frou gli risponde, ma sempre a suon di musica.
Infatti, se la morte significa necessariamente essere “da qualche parte”, questo altrove si dimostra accessibile solo a patto di usare un linguaggio Altro da quello verbale-terreno, che sia capace di scavalcare l’oltretomba: l’arte si presenta allora come il medium che consente di spingersi verso l’alto e di raggiungere quel luogo in cui il Clown Bianco e l’Augusto, cioè la dualità dell’Uomo, sospendono la loro guerra infinita e vanno via insieme, finalmente riconciliati.
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