Addio Tobe, tassidermista dei nostri incubi
“Tobe era andato vicinissimo al nascere in un cinema. I genitori possedevano parecchi alberghi in giro per il Texas, e il giorno della nascita sua madre era a Austin in un cinema vicino a uno degli alberghi, quando decise che era arrivato il momento di presentarsi in sala parto. Se ne può dedurre che l’influenza del cinema su Hooper fu prenatale, e che la sala, durante la sua prima giovinezza, ebbe di frequente la funzione di baby sitter”
(David J. Schow- introduzione all’antologia “Lo schermo dell’incubo”)
Il destino toccato a Tobe Hooper rispetto ad altri registi che hanno operato un profondo rinnovamento nel cinema horror tra gli anni ’70 e ’80 è stato probabilmente ingeneroso e un po’ ingiusto. E se resta unanimemente indiscutibile la qualità del suo debutto nell’horror, The Texas Chainsaw Massacre (Non aprite quella porta, 1974), vengono di frequente sminuite un po’ tutte le produzioni successive, mentre per quanto riguarda Poltergeist, che ne rilanciò quasi un decennio dopo la carriera, non si fa che ripetere ciò che è noto anche ai sassi, ovvero che, a onta della firma del buon Tobe alla regia, si tratta sostanzialmente di un’opera da cui traspare la mano di Steven Spielberg, ufficialmente solo produttore del film, nella realtà molto di più. Quasi come se egli sia stato più una meteora con una singola e fortunatissima intuizione anziché il regista influente che di fatto è stato, influenzando grossi nomi in alcuni casi più blasonati di lui, uno per tutti Ridley Scott, che ammise di essersi ispirato al capolavoro di Hooper per le atmosfere claustrofobiche e paranoiche del suo Alien. Peraltro Hooper nasceva come cineasta con velleità autoriali. Negli anni ’60, trascorsi come insegnante di college, iniziò la sua attività di regista con un documentario sulla controcultura hippie (Eggshells), che però non ebbe alcun successo.
L’ispirazione per il suo scioccante capolavoro a basso costo del 1974 ebbe due diverse fonti. La vicenda di Ed Gein, il serial killer cannibale con l’hobby di realizzare abiti ed elementi d’arredo in pelle umana è un’ombra lunga che, da Psycho a Il silenzio degli innocenti, fino ad arrivare ai film di Rob Zombie (le cui prime opere sono fortemente debitrici verso Non aprite quella porta), ha fortemente condizionato l’immaginario letterario e cinematografico statunitense (e lo farà ancora a lungo, visto che Gein è stato il paradigma più noto di molteplici analoghe figure che hanno inquietato la provincia americana nel ventesimo secolo). Tobe arricchì questo spunto descrivendo non un serial killer isolato, ma una intera famiglia di psicopatici assassini, calata nella realtà del Texas più rurale e arretrato, o meglio degradato irrimediabilmente dopo la sanguinosa guerra civile americana. Ulteriore suggestione venne a Hooper da un aneddoto goliardico di un conoscente, che all’epoca in cui era studente di medicina aveva scorticato il viso di un corpo destinato agli studi autoptici per poi indossare la pelle come una maschera. Bastò aggiungere la motosega per avere servita la superstar del film, il terrificante Leatherface, paradigma di tutti gli incubi di perversione e sadismo sepolti nell’immaginario dell’epoca. Sconvolgente al momento della sua uscita, anche per il suo atteggiarsi a mockumentary(ovvero finto film documentario), tutt’ora a tratti insostenibile per la sua esplicita crudeltà, le sue tematiche estreme hanno probabilmente fatto passare in secondo piano le ottime qualità del mestiere mostrato da Hooper, un regista all’epoca relativamente giovane ma molto più consapevole rispetto ad altri suo contemporanei che innovavano l’horror cinematografico, delle potenzialità espressive e stilistiche della forma d’arte prescelta.
Dopo questo exploit, in grado davvero di costituire uno spartiacque nella cinematografia thriller (con un impatto simile a quello che aveva avuto due anni prima L’ultima casa a sinistra, con cui il collega Wes Craven aveva inventato il sottogenere “rape & revenge”, per Hooper si aprono le porte di Hollywood. Tra i titoli si ricordano Quel motel vicino alla palude, ancora una storia di omicidi seriali(con annesso coccodrillo), in un cast che comprende Robert Englund, Mel Ferrer e Carolyn Jones (la Morticia della storica serie televisiva degli Addams). Si ricorda anche Il tunnel dell’orrore, una produzione Universal che fu censurato per oscenità nel Regno Unito. ancora uno slasher con un villain crudele e deforme che viene annoverato tra le sue opere più riuscite. Da ricordare anche la trasposizione in miniserie televisiva del romanzo vampirico di Stephen King Le notti di Salem. Non ben accetto neppure dallo stesso King, soprattutto per la libera resa del vampiro protagonista, ricalcato esteticamente sul Nosferatu di Murnau (vi era stato del resto proprio nello stesso periodo il remake con Klaus Kinski protagonista). Hooper lavora insomma con frequenza nella seconda metà degli anni ’70 ma, forse perché non riesce a mantenere autonomia creativa nel momento in cui passa dalle produzioni low budget alla realtà delle major, non consolida il suo successo commerciale. Successo che invece gli arriderà nel 1982 grazie alla sua firma alla regia del già citato Poltergeist. Seguono altre opere più improntate al genere fantascientifico (Space Vampires, Invaders), finché nel 1986, a distanza di oltre un decennio, si decide a dare un sequel al suo film più celebre. Non aprite quella porta 2, con il suo indulgere sovente nel linguaggio dell’ironia, quasi sul filo dell’auto-parodia, disorienta fan e critica, anche se sarà nel tempo rivalutata come opera. Hooper nelle successive tre decadi lavorerà relativamente poco, almeno in ambito prettamente cinematografico(ma c’è il tempo per un’altra interessante trasposizione da Stephen King, ovvero il racconto The mangler da cui trae il film omonimo, e per altre opere di scarso successo), mentre sarà parallelamente attivo nella regia televisiva: Si ricordano le illustri partecipazioni a numerose serie televisive: da Storie incredibili a Un giustiziere a New York, a Freddy’s Nightmare alle più recenti Night Visions e Taken, al divertente film a episodi Body Bags prodotto dall’amico John Carpenter. Sempre spaziando dall’horror low budget al thriller. Nel 2005 e nel 2006, affidando la regia di due episodi della sua produzione Masters of Horror, il regista e produttore Mick Garris tributa il giusto riconoscimento a questo regista spesso in anticipo sui tempi e dall’influenza indiscussa, sia sui suoi contemporanei che su tante attuali giovani leve del cinema horror: In molti lo ricordano, dimostrando poco acume e lungimiranza, solo per la sua opera più scioccante e per un successo commerciale la cui partecipazione è stata più di facciata che altro, in quanto più farina del sacco del “Re Mida” Spielberg.