Westworld, il nostro specchio meccanico
I techno-thriller di Michael Crichton ci hanno insegnato da tempo che un sistema chiuso e apparentemente vigilato può diventare instabile portando conseguenze decisamente spiacevoli. Questo assunto reso popolare dal successo di Jurassic Park del ‘90 è il medesimo de Il mondo dei robot, innovativo film del ’73 in cui complesse tecnologie finalizzate all’intrattenimento sfuggono al controllo umano generando anarchia e distruzione.
A distanza di anni, il dibattito sulle Intelligenze Artificiali e l’evolversi degli spfx delle produzioni televisive hanno permesso di aggiornare il tema, accentuandone aspetti scottanti un tempo improponibili in tv. Tramite questa materia sulfurea nasce Westworld, prodotto della HBO in cui gli interrogativi sul rapporto uomo/robot sono ben miscelati ad avventura e mistero, in una combinazione vicina allo spirito di film come Automata di Ibàñez o Ex Machina di Garland.
Il sottotitolo dove tutto è concesso, racchiude in sé tutte le problematiche connesse alla “vita” delle attrazioni del parco tematico e, soprattutto, il loro sfruttamento da parte dei creatori umani e della loro clientela.
Westworld è una gigantesca area naturale costellata di piccoli insediamenti, in cui una popolazione di automi conduce esistenze che girano in loop intorno a storie e destini precostruiti, ad uso dei visitatori alla ricerca di emozioni forti, sesso e violenza sfrenata.
La principale attrazione del parco è la condizione di libertà degli istinti più estremi, un privilegio consentito e incoraggiato perché gli androidi, veritieri al punto di sanguinare e soffrire, non sono considerabili viventi, cosa che li rende disponibili a qualsiasi abuso.
Lo stesso scenario western, poi, è la perfetta cornice delle più infantili fantasie di potere che albergano in noi, come lascia intendere lo script pessimistico e crudo di Jonathan Nolan e Lisa Joy, reduci dall’esperienza di Person of interest e le sue IA contrapposte.
La struttura delle psicologie artificiali degli androidi, sempre più sofisticata, porta i loro costruttori a dotarli di tracce mnemoniche di cicli vitali passati (di norma conclusi brutalmente dai visitatori), le cosiddette reverie, che in forma di reminescenze danno più spessore e credibilità ai loro comportamenti. Tutto questo, però innesca in alcuni soggetti un meccanismo germinale di coscienza: ripercorrendo flash di vite precedenti, i robot ricordano anche in forma di sogno le scene del proprio ripristino – brutali pratiche da campo di concentramento – da ciò scaturisce la consapevolezza di vivere in una finzione.
Un magistrale Anthony Hopkins, sostenuto da una recitazione asciutta e sapiente, presta il volto al demiurgo co-ideatore del parco, il dottor Robert Ford (nome che cita non a caso il grande industriale dell’automobile), tratteggiando una figura ambigua che si muove tra i propri “giocattoli” con paternalismo, delirio di onnipotenza e possessività da dio geloso.
Ford si difende con durezza dagli intrighi della Delos, la società proprietaria dell’attrazione più efferata e disumana dei pistoleri meccanici del parco, e intrattiene un rapporto manipolatorio e allusivo con Bernard Lowe (Jeffrey Whright), il capo della divisione programmatori, che in frequenti incontri privati studia la psiche sempre più umana dell’attrazione Dolores.
La prova d’attrice di Evan Rachel Wood nei panni del robot destinato ad evolversi, è uno dei punti di forza del serial, basato sulla complessità dell’intreccio, sui suoi interrogativi e sulla inquietante presenza delle macchine, rese dai bravissimi attori senza alcun macchiettismo di maniera, ma con sfumature mimiche che ne restituiscono la forza straniante.
Chiunque abbia assistito a uno spettacolo di marionette è testimone di quanto un simulacro umano in movimento riesca a turbare e affascinare lo spettatore. Westworld porta tutto ciò alle estreme conseguenze, immergendoci in un universo dove i confini tra reale e finzione si assottigliano e si può restare intrappolati nelle proprie spinte oscure. Ne è emblematica la sadica figura dell’Uomo in nero di Ed Harris, un assiduo frequentatore del parco che negli anni ne esplora ogni storia e ogni angolo, ritrovandovi la parte più selvaggia e feroce di sé.
Nella prima stagione del serial, siamo introdotti nelle logiche perverse di una macchina di divertimento, fondamentalmente immorale, fronteggiando le pulsioni di morte e l’aggressività che il parco ha il potere di far emergere travestendole da gioco. Un parterre di figure comprimarie contribuisce ad arricchire la trama con interazioni che convergono verso inevitabili bagni di sangue, tutte stereotipe presenze come la scaltra, ribelle maitresse interpretata da Tandie Newton, o i banditi dotati di un canagliesco fascino come “El lazo” Gonzales o Hector Escaton, interpretati da Clifton Collins Jr. e Rodrigo Santoro.
La confezione estetica del prodotto è calibrata per bilanciare la brutalità delle situazioni western con un raggelante tocco tecnologico, a partire dalla sigla estremamente rarefatta, che richiama la cristallina visione di Kubrik unita a echi del film di Kike Maìllo, Eva.
Westworld è tutto questo, quesiti etici, avventura, misteri e tante domande sulla natura umana. L’estrema complessità degli argomenti, porta il carrozzone della stagione 1 a degli sfilacciamenti di sceneggiatura, che, uniti a qualche compiacimento splatter di troppo, inficiano un poco una serie dagli ottimi presupposti.
Per valutarne la portata molto dipenderà dagli sviluppi impressi nella stagione 2, in partenza a ottobre, dove avremo risposte e ulteriori enigmi in pari misura. Infrante le barriere del parco, il prossimo terreno di gioco potrebbe essere il mondo intero.