Venezia 74, “Ammore e malavita”: risate in sala con i Manetti bros.
Accoglienza molto positiva stamattina alla seconda proiezione per la stampa per Ammore e malavita, ottavo lungometraggio di Marco e Antonio Manetti, più noti come Manetti bros., ospitato con un pizzico di generosità nel Concorso di questa 74° edizione della Mostra del Cinema di Venezia. I due fratelli romani tornano a girare per la seconda volta consecutiva a Napoli dopo il buon precedente di Song ‘e Napule, con una storia che è una commistione di generi tra commedia, action movie e addirittura musical. Va però detto che, a differenza delle notizie lasciate filtrare prima della visione del film, Ammore e malavita non è un’opera interamente cantata dall’inizio alla fine (come Les parapluies de Cherbourg di Jacques Démy o Tommy di Ken Russell, giusto per citare un paio di esempi illustri) ma contiene alcuni inserti musicali che irrompono improvvisamente nella narrazione. Si tratta insomma di una commedia con canzoni più che di un vero e proprio musical dove la parte dialogata comunque è nettamente prevalente a quella in cui, con il solito espediente di genere e accettando la sospensione dell’incredulità, i protagonisti continuano una conversazione già iniziata mettendosi a intonare le canzoni scritte appositamente per il film.
Ammore e malavita è la storia del killer Ciro (Giampaolo Morelli) che lavora, se così si può dire, al soldo di don Vincenzo (un Carlo Buccirosso debordante come al solito), che decide di redimersi dopo l’incontro con Fatima (Serena Rossi), la ragazza da lui amata nell’adolescenza. La scelta di Ciro non sarà senza conseguenze in quanto egli diventerà l’obiettivo dei sicari di don Vincenzo, tra i quali si trova l’amico del cuore Rosario (il cantante Raiz nelle insolite vesti di attore). Come sempre nel cinema dei Manetti, assistiamo ad un vero e proprio fuoco di fila di situazioni improbabili e paradossali, di battute fulminanti e di momenti straordinariamente kitsch, tra cui una memorabile sequenza che vede Pino Mauro, storico interprete della canzone classica e della sceneggiata napoletana, che si esibisce in un assolo canoro, seduto su una sedia incorniciata dai famosi corni rossi napoletani portafortuna, sullo sfondo di Piazza Plebiscito (momento a dir poco cult). Sebbene scritto in maniera talvolta abborracciata, pieno di momenti squilibrati e nei quali la logica narrativa sembra sfuggire totalmente al controllo dei registi, il film dei Manetti è un’opera da considerarsi assolutamente riuscita, paradossalmente il migliore dei tre film italiani sinora passati in concorso, un’opera fresca, pimpante, sincera, vitale.
Con Ammore e malavita i Manetti continuano quindi il loro percorso autoriale che li vede mettersi in gioco lavorando continuamente sui generi. Così, dopo l’horror, declinato sia in chiave grottesca con Zora la vampira che in maniera più fedele ai modelli di maestri come Dario Argento e Mario Bava con Paura 3D, la fantascienza de L’arrivo di Wang, il thriller di Piano 17, ecco arrivare questa divertente miscela di musical e film noir, entrambi governati dall’angelo custode dell’ironia. Certo, inserire un’opera del genere nel cartellone del Concorso appare forse un azzardo, sia per la sua natura troppo disimpegnata, sia perché rischia di dare un’immagine troppo provinciale del nostro Paese. Tuttavia, con i limiti descritti, cui va aggiunto la durata abnorme di quasi 140 minuti, Ammore e malavita resta un film da difendere, se non altro per l’inafferrabilità dei suoi autori e il loro tentativo di andare oltre l’asfittico panorama del cinema italiano, dominato da una sorta di “commedificio” di spessore scarso, se non nullo.
Tra le altre visioni, oggi ci siamo imbattuti in un film sensazionale, probabilmente il più sorprendente del Festival: Les garçons sauvages di Bertrand Mandico, ospitato nella Settimana Internazionale della Critica, tradizionalmente dedicata ai lungometraggi di autori esordienti. Si tratta di un’opera abbacinante, di incredibile splendore visivo. girata in bianco e nero (tranne pochissimi momenti in cui compare il colore), che racconta la storia di cinque adolescenti di buona famiglia, appassionati di scienze occulte, che commettono un feroce crimine. Un capitano olandese li costringe ad una crociera di rieducazione a bordo di un vascello fatiscente e spettrale che li porterà su un’isola dalla vegetazione lussureggiante che cela un segreto sconvolgente. Les garçons sauvages è un’opera di incredibile e annichilente potenza che guarda alla letteratura di Robert Louis Stevenson e Jules Verne e, come si può capire, ha non pochi punti di contatto con Il signore delle mosche di William Golding e I ragazzi selvaggi di William Burroughs, del quale prende anche il titolo (anche nel romanzo di Burroughs i ragazzi subivano sorprendenti metamorfosi). Oltre all’immaginario letterario, Les garçons sauvages è anche imbevuto di cinefilia attingendo, tra gli altri, dal cinema di Kenneth Anger, dai B-movie statunitense, da L’Atalante di Jean Vigo. Sebbene sempre sull’orlo del manierismo, la regia di Mandico confeziona un’opera ambiziosa (finalmente!) che sfoggia una maturità quasi miracolosa in un autore che, fin da questo esordio, rivela la volontà di utilizzare il mezzo cinematografico ai suoi massimi livelli. La tanto abusata espressione “film del Festival” potrebbe risultare questa volta perfettamente calzante.