“Dunkirk” di Christopher Nolan: partitura incompiuta

Io sogno di dare alla luce un bambino che chieda: “Mamma, che cosa era la guerra?”
Eve Marriam

Dunkirk è il racconto della famosa “Operazione Dynamo”, che ebbe luogo tra il 27 maggio e il 4 giugno 1940 sulla spiaggia francese di Dunkerque quando le truppe anglo-francesi furono costrette alla ritirata dagli attacchi della Luftwaffe, l’aviazione tedesca. L’operazione vide la partecipazione sia di navi da guerra che di imbarcazioni civili e permise il salvataggio di circa 300.000 soldati mentre circa 110.000 furono le perdite. Il film di Christopher Nolan descrive questo storico evento incrociando tre momenti: un’ora di combattimento aereo contro l’aviazione tedesca del pilota Farrier (Tom Hardy), una giornata nella vita del volontario civile Dawson (Mark Rylance), e una settimana di vita delle truppe britanniche che vedono al centro della narrazione il giovane soldato Tommy (Fionn Whitehead) e il comandante Bolton (Kenneth Branagh).

Prima di inoltrarsi in qualunque analisi critica, è necessario premettere che il britannico Nolan è un cineasta che pensa in grande, autore dalle ambizioni smisurate, alfiere di un cinema che, al di là dei discutibili (per chi scrive) esiti artistici e della diversità di approccio dei temi trattati, può essere paragonato a quello di un maestro come Stanley Kubrick, anch’egli ansioso sperimentatore di generi e dal quale, se fosse ancora in vita, sarebbe lecito aspettarsi le stesse ardite sperimentazioni tecniche messe a punto da Nolan con questo suo nuovo film, come l’utilizzo del 70mm. o dell’IMAX. Dunkirk, decimo lungometraggio del regista, segue di tre anni il successo di pubblico di Interstellar, opera di grandi ambizioni filosofiche ma troppo cerebrale e narrativamente confusa, tutta affidata a lunghi e contorti “spiegoni”, per essere davvero capace di scuotere ed emozionare.

E qui sta il punto. Dunkirk, opera dagli intenti se possibile ancora più grandiosi del film precedente, è una composizione visiva e (soprattutto) sonora stordente e ossessiva, scandita da un ritmo ferreo che rende l’azione geometrica e pre-ordinata laddove invece la situazione richiederebbe forse che a dominare fossero il caso e l’arbitrarietà. Sotto questo aspetto, c’è poco o nulla in Dunkirk che appaia realmente credibile. È uno strano paradosso: i potenti mezzi a disposizione del regista-demiurgo, il suo assillo per una ricostruzione il più possibile rigorosa degli eventi si ritorcono contro di lui, e si finisce ben presto per non credere a ciò cui stiamo assistendo: a Dunkerque ci furono circa 110.000 morti ma sullo schermo, a parte qualche manichino che salta o affonda velocemente, non si vede quasi mai una goccia di sangue, un corpo ridotto a brandelli, qualcosa che restituisca realmente la ferocia della guerra: la morte non è mai davvero in scena, se non come apparizione fugace, più evocata che mostrata. Esemplare, in questo senso, appare la sequenza iniziale del seppellimento del cadavere del quale vediamo significativamente solo i piedi, privi ormai delle scarpe, con il resto del corpo senza vita coperto dalla sabbia.

Siamo ben lontani dall’iperrealismo kubrickiano di Full Metal Jacket, dalle scioccanti sequenze di Salvate il soldato Ryan di Steven Spielberg con la sua insuperabile e insuperata sequenza iniziale dello sbarco in Normandia, dal dittico eastwoodiano Lettere da Iwo Jima  e Flags of our fathers. In questo senso, assai più veridiche e di maggiore impatto, pur nell’esaltazione del regista erano, per citare un esempio recente, le sequenze girate da Mel Gibson e dal suo Hacksaw Ridge, capaci di restituire in maniera molto più efficace la ferinità e l’implacabile ferocia dei combattimenti. In Dunkirk, invece, la guerra è soprattutto spettacolo ed esibizione cinematografica (per quanto talvolta magistrale) e quasi mai orrore. Guidato dal metronomo del musicista Hans Zimmer, autore di una partitura ossessiva, rimbombante, stordente, Nolan si (af)fida troppo al suo meccanismo, e le sue immagini appaiono troppo studiate a tavolino ed orchestrate per sembrare davvero “vive”. Il finale del film inoltre, con dialoghi sempre in bilico sulla retorica, finisce per essere una celebrazione del fiero patriottismo del popolo e dell’esercito inglese, dimenticando di ricordare, accanto ai superstiti, le migliaia di morti di quella memorabile ma anche tragica settimana.

E che dire, poi, dell’immagine finale delle imbarcazioni di salvataggio? Dopo aver mostrato decine di comparse sulla spiaggia, e pur con a disposizione un budget di circa 150.000.000 di dollari, quello che lo spettatore si trova davanti è una decina di piccole imbarcazioni di soccorso (nella realtà furono circa 4.000) che dovrebbero stipare i circa 300.000 sopravvissuti e la cui comparsa sulla scena appare a dir poco stonata. Per questa ragione, sebbene non manchino in Dunkirk sequenze potenti e almeno una sequenza indimenticabile (il lento atterraggio dell’aereo pilotato da Tom Hardy che plana lentamente sulla spiaggia), l’impressione generale è quella di un’opera sontuosa ma fiacca, eccessivamente astratta e teorica (in definitiva, troppo innamorata di sé stessa), poco o nulla avvincente nelle poche scene in cui il grande affresco corale lascia il posto all’emotività del singolo. Per citare qualche esempio, viene in mente il segmento, assai poco riuscito, che vede protagonisti Cillian Murphy e un poco convinto e monocorde Mark Rylance, o la sequenza al molo che coinvolge il soldato francese che gli alleati inglesi vorrebbero cacciar via dalla nave che sta imbarcando acqua e che, probabilmente solo per un caso, assume solo a posteriori un interessante significato politico post-Brexit ma che è condotta dal regista senza vera tensione. A differenza del suo personaggio, il pilota Farrier, capace di solcare i cieli ma anche di planare morbidamente a terra, Nolan sembra a disagio quando deve fissare il suo sguardo ad altezza d’uomo.

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Un pensiero riguardo ““Dunkirk” di Christopher Nolan: partitura incompiuta

  • 13 settembre 2017 in 7:16
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    L’accostamento di questo film all’affair “Brexit” mi sembra innegabile: facciamo da soli! Film tutto sommato algido è molto British. Mi aspettavo una menzione dell’umanissimo Kenneth Branagh a cui è affidato il compito di riscattare in una certa misura il rifiuto iniziale di imbarcare i francesi.

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