La lingua dell’accabadora
Fillus de anima.
È così che li chiamano i bambini generati due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità di un’altra. Di quel secondo parto era figlia Maria Listru, frutto tardivo dell’anima di Bonaria Urrai. (Michela Murgia, Accabadora, Einaudi, 2009)
Nell’incipit dell’Accabadora di Michela Murgia è già contenuto tutto il romanzo, sorretto solo apparentemente dalla scarna vicenda narrativa che ancora più sintetizzata si potrebbe dire “L’accabadora Bonaria Urrai adotta Maria Listru”. La profondità vera del romanzo, il filo che tiene insieme la Sardegna dell’entroterra contadino con l’Italia, che verghianamente esiste solo quando chiama alla guerra gli isolani, è la lingua sarda, questa in Murgia diviene vero e proprio codice parallelo ma non sovrapponibile all’italiano dei continentali.
Fillus de anima, secondo tradizione regionale sono i figli cresciuti in famiglie diverse da quella di origine e adottati da una madre elettiva. Maria, frutto non voluto e tardivo di una vedova povera, e l’anziana Bonaria, instaurano un rapporto d’amore per consapevole scelta e non incondizionato. I fillus de anima hanno nei confronti della madre adottiva il dovere di accudirla e il diritto a ereditarne i beni. Maria farà questo, erediterà la condizione di accabadora della sua madre dell’anima.
Fillus de anima e accabadora sono termini del sardo e hanno un ruolo preminente nella narrazione: il primo indica il rapporto tra le protagoniste, il secondo ruolo di Bonaria, tramandato poi a Maria, nella società della cittadina di Soreni. L’accabadora è letteralmente “colei che finisce”, “l’ultima madre”, una figura temuta e rispettata perché in grado di portare la morte a chi la desidera. Nell’Italia del 2017 ciò viene definito eutanasia, ma l’eutanasia dei dottori e il dibattito legislativo non tocca il sistema Soreni degli anni Cinquanta del Novecento, dove non esistono medici e ospedali bianchi ma una donna vestita di nero e l’ultimo gesto di pietà di una madre dal grembo freddo.
Nel rituale dell’accabadora non ci sono connotati ideologici o politici, è l’emanazione di un sistema così particolare che anche la morte per i suoi abitanti arriva in modo diverso, sottoposto a rituali antichi. Agli abitanti di Soreni la morte si mostra con il volto familiare dell’ultima madre.
L’italiano e il sardo fanno parte della medesima famiglia linguistica, ma quest’ultmo è più vicino al latino rispetto alle altre componenti, fenomeno che lo rende già all’orecchio una lingua esoterica. La funzione quasi magica della lingua è riconosciuta dai parlanti dell’entroterra sardo. Qui vi è un altro mondo, distante dal continente. Non solo una lingua diversa ma un altro codice che il lettore ascolta ma che non ha i mezzi per comprende veramente.
Ciò non significa che il testo sia rivolto ai soli conoscitori della Sardegna di metà del Novecento, lo straniamento di chi per la prima volta si accosta a questa realtà è voluto, perché è la sola realtà in cui gli atti compiuti da Bonaria non vengono giudicati, ma considerati accettabili e necessari. Anche la morte è diversa a Soreni, quello che altrove verrebbe considerato un brutale soffocamento con il cuscino è parte di un rito di morte, ma soprattutto di maternità. «La Sardegna è semplicemente bella da raccontare e qui convivono contraddizioni da cui non può che venire letteratura» spiega Murgia a L’Espresso nel 2015.
Nel breve Accabadora vi è una sovrabbondanza di immagini, belle e scarne alla maniera della più importante scrittrice sarda Grazia Deledda. Ciò finisce per penalizzare l’impianto narrativo, e la conoscenza dei protagonisti, le cui relazioni sono affidati a gesti fugaci e simbolici. La comprensione che si instaura tra i personaggi non tocca mai il lettore, egli non partecipa ma osserva da lontano uno schiaffo, una camminata nel buio dai molti significati.
“Mentre era china a osservare il pane, accadde però che gli occhi andassero allo specchio, dove oltre al pane vide anche se stessa.”
Il libro segue la crescita di Maria, ma al contrario di quanto accade nel romanzo di formazione non avviene in lei una crescita individuale, il suo sviluppo è visto sempre nell’ottica dell’accettazione delle regole del paese, la sua emancipazione non avviene mai e la maturazione giunge nel momento non della breve parentesi del distacco, ma nel ritorno al ruolo trasmessole da Bonaria. L’unico momento in cui vediamo Maria indagare se stessa è quello che precede il matrimonio della sorella maggiore, la scena in cui la giovane Maria si osserva con il petto ancora acerbo scoperto e la tradizionale corona nuziale sul capo è anche l’unica in cui è possibile per il lettore sfiorare la complessità della protagonista e saggiarne i pensieri in quanto individuo e donna.
Un altro momento però mostra Maria donna, è la fuga a Torino, intermezzo necessariamente vuoto per la storia perché ha a che fare con la scoperta di Maria del continente, ma non con la conoscenza di sé. Quando la giovane scopre la vera attività di Bonaria, non di sarta ma di accabadora, si rivolge alla maestra Luciana per allontanarsi dalla città, finisce così per diventare bambinaia al nord Italia. L’estraneità di Maria nella casa dei datori di lavoro è insita già nel nome della famiglia: Gentili, pagani rispetto al mondo monolitico conosciuto da Maria. C’è uno schermo tra Maria e Torino, due codici che non possono dialogare. Unico interlocutore della giovane sarda è l’ancor più giovane Giorgio Gentile, tra loro non c’è lingua degli amanti, ma della solitudine, quello ancestrale di Maria, legato alla sua terra, e quello dolente di Giorgio, vittima di abusi. Per quanto voluto tra i due non è possibile alcun rapporto fisico, la loro lingua di scambio è quella della solitudine e dei mali dell’anima.
Il problema della lingua in Murgia si presenta anche nella forma dell’italiano regionale, quella varietà in cui la lingua italiana è piegata nella pronuncia, sintassi e lessico all’influenza del dialetto. Già nelle prime pagine viene messo in evidenza come la maestra Luciana, forestiera, “venuta da fuori”, parlasse ancora “l’italiano in torinese” e dovesse combattere l’avversione dei bambini di Soreni per l’idioma nazionale, la loro zona di sicurezza è quella della lingua madre parlata in casa e non quella imposta nel corso della breve istruzione.
L’ingerenza di elementi esterni, linguistici o istituzionali, hanno sempre una connotazione negativa nella concezione all’interno del codice di comportamenti degli abitanti di Soreni, così anche la polizia in questo microcosmo è vista come un elemento superfluo anche da chi subisce un abuso punibile a norma di legge: “Ci sono posti dove la verità e il parere della maggioranza sono due concetti sovrapponibili, e in quella misteriosa geografia del consenso, Soreni era una piccola capitale morale.” Maria ne è consapevole, e accetta di tornare da Torino per rispondere al richiamo della madre dell’anima, vi resta dopo la sua morte perché quella Sardegna esoterica è l’unica realtà da lei vivibile e non solo abitabile.
“Andrìa rimase a guardarla in silenzio, poi a mezza voce chiese:
«Cosa farai adesso?»
«Quello che so fare: la sarta.»
«Resti qui, vuoi dire…»
«Me ne sono andata mai, Andrì?»”