Sense8, Napoli e le anime abbandonate

La sirena Partenope, creatura metà donna metà pesce, è l’emblematico simbolo di Napoli, una città in cui i confini sono una linea di demarcazione labile e sfumata e ogni cosa convive col suo opposto in un secolare meticciato quotidiano. Modernità e superstizione, legalità e attività illecite, retaggi di presenze straniere che hanno lasciato il loro segno anche nel dialetto, infine la natura duplice, incarnata dal “femminiello”, creatura tradizionalmente rispettata e dotata di un ruolo all’interno della comunità e di alcune sue manifestazioni religiose, sono caratteristiche che – più delle bellezze paesaggistiche – possono aver reso la città campana un set perfetto per la riprese dell’episodio finale di Sense8.

Per coloro che non avessero familiarità col serial di culto creato dalle sorelle Wachowski insieme a Michael Straczynski, rimandiamo all’articolo precedente La bellezza senza frontiere di Sense8, in cui si traccia una prima lettura di questa produzione, bruscamente interrotta al termine della seconda stagione in un punto sospeso della storia.
Come in altre circostanze analoghe, le leggi di mercato hanno costretto la monumentale macchina produttiva a fermarsi, a causa degli enormi costi sostenuti nei vari set sparsi per il mondo.
Siamo molto lontani dalle ingenue ambientazioni del primo Star Trek, che negli anni ’60 ricostruiva in studio i pianeti più esotici facendo ricorso a fondalini dipinti e accorgimenti scenografici. In Sense8 la forza visiva della messa in scena è data dall’utilizzo di vere location collocate negli otto paesi di origine dei protagonisti, così da restituire con credibilità la potenza straniante del rapporto che connette tra loro i personaggi.

Nel corso di due stagioni abbiamo visto presentare ed evolvere la razza dell’Homo Sensorium, attraverso il doloroso percorso di riconoscimento degli otto individui che compongono la cerchia interconnessa. L’estrema diversità dei caratteri, delle aree culturali e delle attitudini morali non costituiscono una barriera tra poliziotti e criminali, tra etero e transgender, tra attori di successo e poveri lavoratori, andando a formare un gruppo compatto, man mano cosciente del proprio status e, ovviamente, braccato da forze ostili come il BPO (Biological Preservation Organization), che mira a sopprimere questo ramo evolutivo dell’umanità.
Il ruolo del “cattivo” della circostanza è affidato a un dottore conosciuto come Whispers per il suo sinistro sussurrare nella mente delle proprie vittime (Terrence Mann), alfiere mutante dell’ala più reazionaria del potere, che ne sfrutta le doti paranormali per eliminare progressivamente le tante cerchie nascoste per il mondo. Per un realismo di interpretazione del racconto, lo spettatore, comunque, si renderà conto, nel secondo ciclo di episodi, che la realtà dei rapporti delle varie famiglie di interconnessi riflette la difformità caratteriale e etica che intercorre tra gli umani normali.

E’ in questa veste ambigua e feroce che incontriamo nella terza puntata Obligate mutualism, la bellissima Lila Facchini (l’ex modella Valeria Bilello), figura di donna forte e senza scrupoli che viene presentata a Wolfgang con un’interessante scambio di battute:

Lila è napoletana.
Italiana?
No, napoletana.

Questo distinguo non vuole legarsi alla dubbia moralità del personaggio, che si schiera con la fazione antagonista stringendo un patto per salvarsi la pelle a scapito degli altri: piuttosto esso lancia un indizio rivelatore della scelta di uno scenario partenopeo per la scacchiera dei Sensate, location che seguirebbe il set tenutosi a Positano nell’aprile 2016 per la puntata natalizia.

L’aspetto sorprendente dell’evento è duplice: da un lato abbiamo la pressione dei fan che ha costretto Netflix a riprendere la serie interrotta con una petizione da mezzo milione di firme. L’altro prodigio è la presenza a Napoli di una produzione da circa due milioni di dollari a episodio, dotata di una macchina organizzativa di oltre 250 persone difficile da collocare in una città già satura di turisti in ogni stagione.
La segretezza che avvolge le scelte produttive non consente di entrare nel merito degli aspetti pratici della lavorazione, solitamente fitta di elementi spettacolari, che dovrebbe incunearsi con coraggio negli spazi cittadini condizionati dal traffico e da mille disagi quotidiani.
Un’annunciata location di grande suggestione, il cimitero delle Fontanelle, sembra piuttosto riproporre e sottolineare l’aspetto simbolico citato all’inizio, dando rilievo a una cultura in cui le rigide barriere tra mondi diversi sono sempre state confuse nella zona franca della frequentazione comune. Si pensa alla convivenza di aristocrazia e popolo nei sedili amministrativi della città, o il culto dei morti che nella cura delle anime pezzentelle (ossia teschi privi d’identità), vede i cittadini “adottare” un defunto in un dialogo ininterrotto con l’Aldilà.

Il discorso di genere della serie, inoltre, è quanto mai calzante all’interno di una comunità che prima delle attuali trasformazioni del sociale, ha dato una collocazione al “diverso”, come racconta la visione nostalgico-romantica di Giuseppe Patroni-Griffi o di Annibale Ruccello, una realtà comunque non priva di contraddizioni e amarezze, a testimonianza della disumanizzazione del tessuto urbano che altri autori hanno sottolineato nel cinema e nella letteratura.
Questa città contemporanea, raccontata con impietosa durezza da Giuseppe Montesano nel sulfureo romanzo Il corpo di Napoli, prima ancora della Gomorra di Roberto Saviano e le sue derive filmico-televisive, sono l’altro aspetto nero di un luogo carico di storia e magia, ma irrisolvibile in una tranquillizzante olografia folkloristica. La “città dei sangui”, come la definisce Erri De Luca, è materia tormentata, fisica, teatro di continui corpo a corpo.
Ancora una volta, pane per i denti di Sense8 e le sue metafore esistenziali.

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