“Tre colori – Film rosso”, di Krzysztof Kieślowski: l’ultima lezione su caso e volontà
– Ha mai amato qualcuno, lei?
– Ieri ho sognato, ho sognato di lei, Valentine: aveva quaranta o cinquant’anni. Ed era felice.
– I suoi sogni si avverano?
– Erano anni che non sognavo qualcosa di bello.
da Film rosso
In concorso a Cannes nel 1994 (l’anno del trionfo di Pulp Fiction di Quentin Tarantino) ma inopinatamente ignorato dalla Giuria presieduta da Clint Eastwood, Film Rosso è l’ultimo film della trilogia firmata da Krzysztof Kieślowski sui colori della bandiera e sul motto della Repubblica francese: liberté, égalité, fraternité. Dopo la “libertà” di Film Blu (Leone d’oro a Venezia 1993 ex-aequo con America oggi di Robert Altman) e la “uguaglianza” di Film Bianco (Orso d’argento per la regia a Berlino 1994) è ora il momento di parlare della “fratellanza” tra gli uomini, uno dei temi di quello che è stato purtroppo il film ultimo, e perciò definitivo, del maestro polacco, scomparso prematuramente nel 1996, vittima di un infarto.
Si è soliti dire, e certamente a ragione, che il cinema di Kieślowski ha al centro il Caso e la Necessità, i quali, in una visione tutta laica del mondo e dell’esistenza, rivestono il ruolo di grandi demiurghi che agiscono in sostituzione di un Dio latitante. Anche il film qui analizzato non sfugge a questo assioma. Per certi versi, esso sembra quasi ispirarsi alla splendida poesia Amore a prima vista della poetessa Wisława Szymborska, conterranea del regista e premio Nobel per la letteratura nel 1996, un testo in cui si esplora la forza del Caso e il mistero nell’incontro tra due futuri innamorati, incontro sempre preceduto da “segni e segnali, che importa se indecifrabili”.
Anche nel film di Kieślowski si narra del rapporto affettivo, sebbene platonico, che nasce tra due individui in virtù di un evento apparentemente casuale. In questo senso, c’è un aspetto delle opere del regista polacco che potremmo definire realistico, per la sua stretta contiguità con gli accadimenti della vita. Ma c’è un altro tema fondamentale dal quale a mio avviso non si può prescindere commentando le opere di questo straordinario cineasta: la volontà. Anche in Film Rosso, come già avveniva in alcuni episodi del Decalogo e nelle prime due parti della trilogia dei colori, è un accidente fortuito a spostare l’asse nelle vicende dei personaggi ma è poi la scelta volontaria, il libero arbitrio di questi a far sì che il caso produca risultati fertili e fruttuosi o si riveli, al contrario, sterile e improduttivo. L’investimento di Rita, il cane del giudice in pensione Joseph Kern, avvicina e unisce irreversibilmente le vite di questo anziano uomo, rude e misantropo, e della giovane modella Valentine, ma è soltanto la scelta deliberata (e, appunto, volontaria) di quest’ultima di soccorrere l’animale e di riportarlo al suo legittimo proprietario a dare inizio al rapporto di amicizia profonda e alla reciproca attrazione tra i due.
Al di là della semplicità di quello che i manuali di sceneggiatura definirebbero “incidente scatenante”, Film Rosso è anche un’opera fitta di corrispondenze, richiami, rime interne, rapporti misteriosi tra i personaggi che aggiungono alla fabula una dimensione magica, che va ad integrarsi perfettamente con l’aspetto realistico sopra descritto. D’altronde, il cinema di Kieślowski, e Film Rosso non fa eccezione anzi pare rafforzare questa ipotesi, è un cinema di indagine, che per certi versi sembrerebbe addirittura ubbidire ai meccanismi del giallo ma che non ha come scopo la rivelazione di colpevoli o delitti bensì quello di interrogare i molteplici e multiformi aspetti dell’esistenza. Il campo di investigazione del regista e del suo indispensabile co-sceneggiatore Krzysztof Piesiewicz è quindi la Vita stessa, e questa ricerca quasi ossessiva di tracce e indizi sembra avere tanto più successo quanto più è casuale e involontaria e laddove si nutre di improvvisi lampi di verità, di labili e impalpabili rivelazioni, di guizzanti e inattese epifanie.
Dichiaratamente pessimista e poco o nulla interessato alla religione, in Film Rosso Kieślowski sembra cedere alla tentazione di credere in una sorta di eterno ritorno nietzschiano, in un’idea della vita come duplicità e ripetizione, contrapponendo al rimpianto e alla disperazione l’intrigante ipotesi di un riscatto posticipato, la speranza in una compiutezza che possa addirittura realizzarsi e avvenire per interposta persona. Con voce bassa, sottile, quasi impalpabile Film Rosso osa inoltre affermare, in maniera impudica e quasi scandalosa, la forza dell’amore come motore trainante dell’esistenza, sigillo della fraternità tra uomini liberi e uguali. Per questa ragione, questo film non solo conclude ma anche compendia le altre due parti come mostrato nella scena finale in cui a salvarsi dal naufragio sono solo tutti i protagonisti della trilogia.
Per questa ragione, in un mondo animato dall’affannosa ricerca di amore, non può esserci spazio per il giudizio verso il prossimo: il magistrato, interpretato da un Jean-Louis Trintignant semplicemente gigantesco, riconosce quanto sia presuntuosa la pretesa di stabilire dove risieda la verità nell’agire umano e quanto a volte possa essere più giusto ed educativo salvare e assolvere piuttosto che condannare e punire. D’altronde, anche in Decalogo 5, forse il più bel film sulla pena di morte mai realizzato, Kieślowski metteva sullo stesso piano la ferocia dell’omicida condannato alla pena capitale e l’assassinio compiuto dallo Stato in maniera altrettanto glaciale e spietata.
Sorretta da una straordinaria interpretazione dei due protagonisti (oltre a Trintignant una Irene Jacob intensa e luminosa) Film Rosso è il classico esempio di opera d’arte che dialoga con lo spettatore e lo interroga senza influenzare il suo giudizio in un tacito patto di libertà. Una libertà che sembra investire anche i personaggi, che possono muoversi e svilupparsi a loro piacimento dentro la storia e i cui atti non appaiono preordinati ma frutto di una precisa scelta che prova a scompaginare le carte al destino, in maniera apparentemente ineludibile. Forse perché il destino è esso stesso costretto a riconoscere, citando ancora la poesia della Szymborska, che “ogni inizio è solo un seguito e il libro degli eventi è sempre aperto a metà”.
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