Un pagliaccio dal naso rosso sangue

Il Male esiste, vive in mezzo a noi ed è una realtà fisica, operativa, soprattutto mortale. I frequentatori della narrativa di Stephen King conoscono bene questo assioma, ribadito romanzo dopo romanzo dallo scrittore di Bangor. Il Male cammina sulle nostre stesse strade. La sua presenza forse riveste un ruolo necessario all’economia dell’universo ma va comunque combattuta senza esitazione. Nessun dubbio, nessun relativismo. Il difficile è riconoscerlo: questo Grande Avversario può celarsi dietro maschere diverse, riplasmando simbologie in un caleidoscopio di forme che hanno un solo tratto comune, terrorizzare l’osservatore.

Di fatto la paura è sempre stata, in ogni mitologia, nutrimento del mostro, rinvigorendolo laddove siamo indeboliti, facendogli prendere corpo con l’energia sottratta alla nostra capacità creativa, quando ci allontaniamo dalla conoscenza e dal suo potere liberatorio. La paura e il suo superamento sono anche gli ingredienti basilari di un percorso di crescita, quello che King ci racconta in una lunga epopea dal titolo sibillino ed emblematico, It. Il romanzo-culto del 1986, dunque, appare fluviale nello sviluppo quanto sintetico nel presentarsi, affidando il mistero del suo contenuto a due sole lettere che concentrano in sé tutta la potenza inafferrabile del Male puro.

Nel migliaio di pagine del libro le tematiche ricorrenti del mondo kinghiano sono tutte chiamate a raccolta al servizio di un ampio disegno, imperniato sul conflitto eterno tra ordine e disordine, vita e distruzione, un conflitto rappresentato dalle forze del bene e dal loro opposto. La lunga sequenza di omicidi che danno corpo alla storia, il gioco predatorio descritto da King col consueto iperrealismo in fondo non sono altro che l’appendice digestiva di una partita cosmica, non troppo lontana dalle angosciose visioni metafisiche di Lovecraft.

It è un pezzo oscuro del creato che svolge il suo sporco lavoro abitando simboli. Rappresenta l’identità nascosta della cittadina di Derry, prosperando nel suo rimosso più buio di cui interpreta (attuandoli) i desideri di morte. I suoi tanti volti sono la schiuma affiorante di un calderone dell’immaginario dove galleggiano incubi personali, traumi e feticci, implementati dal bagaglio visivo derivato da cinema e letteratura. Capofila della mascherata del terrore e trait-d’union dei suoi vari aspetti è l’ambigua figura del clown Pennywise, dal trucco pesante che ne occulta l’identità e i pensieri, tragicamente condannato a un’eterna, finta risata come il pagliaccio dell’opera di Leoncavallo, ma anche creatura aliena, come nel successivo trash-movie dei fratelli Chiodo Killer Klowns from the outer space, e ancora nemesi autentica come il serial killer John Wayne Gacy, tristemente celebre per la tenuta circense e i molteplici omicidi di adolescenti. Tramite l’accanimento dell’infame Pennywise contro il proprio bersaglio preferito, i bambini, King utilizza una leva emotiva forte, colpendo la sensibilità del lettore per riportarlo in una dimensione dimenticata dell’essere, la cui straziante nostalgia e la vitalità senza mediazioni vengono enfatizzate dal ritmo incessante degli eventi. Un tipo di associazione che serial come Stranger Things hanno deliberatamente citato, attingendo alla stessa area mitica del vissuto, dove paure, gioie, bellezza e orrore sono tutti portate all’estremo, quasi in una sorta di versione horror dei 400 colpi o Gli anni in tasca di François Truffaut.

Col suo gruppo di protagonisti, tutti a loro modo emarginati (non a caso si autodefiniscono con orgoglio “I perdenti”) torna il mondo dell’infanzia violato, tema ricorrente in numerosi romanzi da Carrie a Shining o Il Talismano, come eco mai pacificata di esperienze familiari dell’autore. La scuola, i compagni aggressivi, gli adulti frustrati, violenti e insensibili sono minacce non meno pericolose del proteiformi assalti di It, ed esprimono un pessimismo di fondo che guarda senza troppe illusioni alla disperata condizione umana. Caricando il registro della crudeltà, a volte motivata da drammatiche circostanze personali, oppure priva di giustificazioni, King tratteggia un atlante di patologie che sono da sempre il vero humus della sua narrativa. Con questo processo, per contrasto, porta in primo piano il valore dell’amicizia e della solidarietà e la comunione tra spiriti affini attraverso il consueto lavoro a sbalzo che descrive le personalità dei suoi personaggi.

La capacità immersiva della sua prosa, poco interessata alla finezza letteraria, ma estremamente efficace nel costruire mondi credibili e palpitanti di vita, permette un rapporto empatico con i sette protagonisti, favorendo un’identificazione che cresce di pari passo all’inasprirsi della minaccia incombente. Un privilegio proprio alla parola scritta che, facendo ricorso a tutte le sfumature della visione interiore del lettore (Joseph Conrad insegna), rende del tutto autentiche le atmosfere stranianti che permeano il libro.

Il clima sospeso tra delirio e realtà, la cappa opprimente dell’incubo a occhi aperti, sono elementi che i limiti di una produzione televisiva hanno penalizzato di più nella prima trasposizione in immagini di It, cioè la miniserie di due puntate diretta da Tommy Lee Wallace nel 1990. L’adattamento per il piccolo schermo ridimensiona la resa della trama, soffrendo pesanti tagli narrativi dovuti a budget e programmazione, semplificazioni banalizzanti (per esempio scompare la cerimonia del fumo e la visione che mostra sull’arrivo di It sulla Terra), oltre che freni censori di cui sono oggetto le scene più macabre e quelle scabrose, improponibili alla platea del tempo. La pecca più rilevante, però, si riscontra nella piattezza generale della messa in scena che rende neutro e televisivo (dalla fotografia ai dialoghi) tutto ciò che è caratterizzato nel romanzo. A questa impaginazione poco felice va esclusa l’incisiva performance di Tim Curry, camaleontico attore a proprio agio nei panni di personaggi abnormi che regge con le proprie risorse mimiche senza poter contare troppo nel modesto supporto dei costumi e del makeup.

Dovendo fare un paragone con le immagini della nuova trasposizione cinematografica di Andrés Muschietti, lo scarto più evidente risulta perciò sul piano visivo, chiaroscurato e patinato come vuole il gusto contemporaneo abituato ai calligrafismi estetici dei sempre più sofisticati spot pubblicitari. Sulla resa complessiva del film diviso in due parti, intanto è opportuno sospendere il giudizio in attesa del completamento dell’opera, di cui resta da vedere il capitolo più delicato e cruciale, con la rivelazione di It nella sua essenza segreta, un momento non risolvibile con l’uso generoso di effetti speciali, ma che richiede polso registico e idee coraggiose.

Rimane quindi il timore che l’operazione possa mantenersi su un piano di lettura superficiale, sottostimando la forza del modello letterario come molti altri adattamenti (primo tra tutti, il pessimo Camion dello stesso King). Tra i pregi dello scrittore, infatti, c’è la capacità di coniugare intrattenimento e contenuti in una forma popolare, ma non riducibile a un mero prodotto di massa. Dal passaggio al grande schermo della sua opera più ambiziosa sarebbe bello poter assistere alla riuscita di un’alchimia analoga.

 

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