Il chicco d’orzo che uccise Martin Eden
“Il chicco d’orzo gli fu unico compagno fedele, in una giungla di tradimenti e di inganni, lo seguì ovunque come un fantasma, nel bene e nel male: non va dimenticato infatti che quel vizio assurdo, un po’ paradossalmente, lo aiutò a essere il primo in tante circostanze della vita e della sua storia”
Il vizio legato al “chicco d’orzo” di cui parla il critico Walter Mauro in queste righe tratte dalla prefazione del 1993 a Martin Eden (Tascabili Economici Newton) è il vizio dell’alcool di cui era schiavo Jack London, il mitico scrittore americano degli abissi londinesi.
Jack London pubblicò Martin Eden nel 1909, nove anni prima di morire. Il fittizio Martin Eden è considerato un alter ego del reale ed enigmatico London. Condividono l’amore per il mare e le avventure. Jack, come il suo protagonista, conosce il lavoro fisico sfiancante e la vita da lupo di mare, e poi di colpo la grande notorietà.
Davide Sapienza nella sua ricca introduzione a Jack London. Le strade dell’uomo (Contrasto, 2015) fa un excursus sulla vita di London, giornalista e scrittore degli ultimi, ponendo attenzione sulla vita avventurosa dello scrittore e sul concetto di lavoro “La dignità del lavoro era tutto per me […]. Ero uno schiavo fedele del salario come mai un capitalista ne aveva sfruttati prima. In poche parole il mio gioioso individualismo era dominato dalla morale borghese ortodossa”.
Con Martin Eden London ha stilato un manifesto della sua idea di socialismo e individualismo hegeliano. Tuttavia, quello che prepotentemente arriva al lettore è lo sfiancante lavoro fisico dell’ex marinaio bloccato sulla terra ferma di Ruth Morse, una ricca borghese americana; e lo sfruttamento del lavoro intellettuale. Ai primi del Novecento Martin deve sottostare alla macchina dell’industria editoriale.
Per Ruth, per quella donna del cui amore non osa immaginare d’essere degno, Martin inizia un percorso di nobilitazione intellettuale e morale. Un cammino vero e difficile per poter aspirare ad essere suo fidanzato e marito. Tuttavia non sa che l’aspirazione dell’amata non è sposare un vero artista o un nobile di cuore, ma un grande borghese.
Ruth, a un’analisi superficiale, sembra essere per Martin l’equivalente di quel chicco d’orzo descritto da Mauro. Ella appare come la spinta che eccita la fantasia del marinaio e lo spinge a fare convergere la sua energia in un’attività più elevata, quindi quella intellettuale. In realtà quel chicco malsano e irrinunciabile, che per London fu il vizio dell’alcool, in Martin Eden diventa la verità dell’arte. La volontà di Martin di rinunciare alla retorica per abbracciare la vita di scrittore conduce il protagonista a un iniziale momento di vitalità: abbandona la vita vagabonda per intraprendere la carriera di scrittore, una strada tortuosa fatta di novelle mal pagate e romanzi bocciati dagli editori, ma che lo condurrà a un successo tanto splendente quanto inutile. La delusione dopo l’eccesso orgiastico. La depressione dopo la sbornia.
Martin brama la verità più di qualsiasi altra cosa, e cede ad essa anche se non vorrebbe. La verità si vende poco, e non può mantenere negli agi la donna amata, istruita inutilmente perché vile nell’animo. Ruth preferirebbe un’occupazione più facile e redditizia per il fidanzato, ma lui sa di non poter cedere e lo chiarisce in un dialogo con lei:
«Credi che questo si venderà?»
«Temo di no» confessò Martin «è troppo forte per le riviste. Ma è vero, parola mia! Proprio così»
«Ma perché persistere a scrivere cose simili, se sai che non si vendono?» proseguì lei inesorabilmente «Non scrivi per guadagnare da vivere?»
«è vero; ma è superiore alla mia volontà. Non ho potuto rinunziare a scrivere questa storia»
Anche London dopo tutta la vita che ha bevuto torna a casa, trangugia a grandi sorsate l’alcool, e vi annega la verità che ha trovato nell’avventura continua della sua vita. Giura che non lo farà più ma è sempre lì, col bicchiere colmo di succo d’orzo. Anche lui come Martin sente l’amore per la verità della vita, il più delle volte amara e volgare ma, al contrario del suo personaggio, egli non si uccide in acque sconosciute, ma viaggia con più accanimento e racconta degli ultimi, siano essi indigeni delle isole Samoa o londinesi. London smette di sublimare la realtà nei romanzi per dedicarsi a reportage e a fotografie, allo scopo di mettere insieme quei “documenti umani” che racchiudono la verità e la povertà dell’uomo d’ogni latitudine.
“Gatsby credeva nella luce verde, al futuro orgiastico che anno dopo anno indietreggia di fronte a noi. Ci è sfuggito allora, ma non importa – domani correremo più forte, allungheremo ancora di più le braccia…” (F. Scott Fitzgerald, Il grande Gatsby, Newton Compton Editore, 2013)
London non scrisse il grande romanzo americano, non lo desiderava neanche, fu la sua stessa vita a esserlo. Un altro scrittore di poco successivo racconterà il mito americano in una delle opere più iconiche della letteratura anglofona, The Great Gatsby, pubblicato nel 1925 dallo scrittore simbolo dei ruggenti anni ’20, Francis Scott Fitzgerald.
Il sogno di Gatsby di riavere Daisy, la ragazza amata in gioventù, non la Daisy della realtà, la donna cinica e opportunista, ma la giovane amata e sognata a distanza. Quel sogno sfiorisce, ma non la tensione verso il desiderio di una condizione migliore, della scalata continua su per una scala senza parapetto. Il sogno americano. Anche in Martin Eden esiste il sogno americano espresso ne Il grande Gatsby, ma Martin conosce la mistificazione della realtà, e dopo averne bevuto se ne tiene a distanza.
Ruth, come Daisy, non è in grado di assolvere al ruolo assegnatole dal suo amato: non può sublimare la tensione di lui verso quell’insieme fatto di scalata verso il successo e miglioramento di condizioni di vita che è lo strato superficiale e più appetibile del sogno americano. Eden, Gatsby, sono i grandi romantici americani, inabili alla vita e con aspirazioni più elevate di quelle che la realtà che li circonda può offrire loro. Questo è chiaro a Martin, ma non a Gatsby. La fiamma verde sempre viva che brucia sul portico di Daisy Martin non può vederla in Ruth, sa che non esiste da nessuna parte, e per questo si annega in acque sconosciute:
“Le mani e i piedi, in un ultimo sussulto di volontà, incominciarono a battere l’acqua, debolmente, spasmodicamente. Ma ogni loro sforzo era inutile: per quanto tentassero, non avrebbero potuto mai farlo risalire a galla; era troppo giù, era troppo lontano. Ondeggiava languidamente, cullato da un fiotto di visioni dolcissime: colori delicatissimi, una radiosa luce lo avvolgevano, lo penetravano. Che cos’era? Sembrava un faro. Ma no: era nel suo cervello quell’abbagliante luce bianca. Essa brillava sempre più splendida.”
Un piccolo chicco d’orzo uccise Martin Eden: era la conoscenza della verità, un frutto proibito e malefico come i pomi dell’albero della conoscenza.