Torino 35: il senso di Godard per il cinema
Il regista Gaspard Bazin sta lavorando a un nuovo lungometraggio. Per il momento sta ancora scegliendo gli attori, attraverso dei provini, e cercando i finanziamenti. Si rivolge a Jean Almereyda, produttore un tempo alla moda ma ormai in declino. Questi fa sempre più fatica a raccogliere i capitali necessari per i suoi progetti e sua moglie Eurydice sogna di essere una stella del cinema. Almereyda desidera compiacerla e tra i due uomini s’innesca un gioco perverso, ma la reputazione di incorreggibile seduttore di Bazin lo dissuade dal richiedere una parte per Eurydice.
Presentato Fuori Concorso a Locarno la scorsa estate nella sua versione restaurata, e ora riproposto anche al Torino Film Festival nella sezione “Festa Mobile”, Grandeur et décadence d’un petit commerce de cinéma è l’opera che nel 1986 Jean-Luc Godard decise di girare per la televisione francese come episodio della “Série noire”. Non era la prima volta che il grande regista della Nouvelle Vague accettava di girare un lavoro per la televisione: oltre a qualche cortometraggio, nel 1976 aveva diretto una miniserie in sei episodi dal titolo Six fois deux/Sur et sous la communication, l’anno successivo un’altra di dodici episodi, di taglio documentaristico, dal titolo France/tour/detour/deux/enfants e nel 1982 un TV movie dal titolo Changer d’image – Lettre à la bien-aimée. Questo per dire che, accettando di girare Grandeur, Godard non fa alcuno strappo alla regola ma approfitta dell’occasione per aggiungere un nuovo tassello al discorso teorico sui media che troviamo in altri suoi lavori. Basti pensare all’ultimo, straordinario Adieu au langage (Premio Speciale della Giuria a Cannes nel 2014 ex-aequo con Mommy di Xavier Dolan) nel quale sperimentava (questo sì per la prima volta) l’utilizzo del 3D. Tra l’altro, non si può parlare di un lavoro su commissione in quanto fu lo stesso regista a farsi avanti con i produttori.
In Grandeur et décadence d’un petit commerce de cinéma è evidente fin da subito l’intenzione di Godard di ragionare sulla crisi del cinema, sempre più fagocitato dal nuovo, sempre più invasivo medium che utilizza(va) il tubo catodico. Con la consueta lungimiranza e genialità, egli si impadronisce del mezzo per intavolare un discorso metalinguistico che, nel mettere in scena il rapporto tra il regista, il produttore e sua moglie, sembra guardare a Il disprezzo ma con la decisiva variante che stavolta al centro del gioco è la moglie del produttore anziché quella dell’autore. Godard fa dialogare Cinema e TV ma è chiara la sua desolata consapevolezza che il primo va sempre più perdendo terreno sulla seconda. In questo senso, assai significativo appare il patetico tentativo da parte del regista Bazin (uno straordinario Jean-Pierre Léaud) di trovare una somiglianza tra la moglie del produttore e l’attrice Dita Parlo, l’indimenticabile contadina Elsa del classico La grande illusione di Jean Renoir. La televisione viene quindi stigmatizzata come fabbrica che produce, appunto, in “serie” e il regista non è neppure il direttore del processo produttivo ma soltanto uno degli ingranaggi di questa catena di montaggio. Per tutto il film, infatti, sfilano decine di comparse costrette a ripetere ossessivamente, un frammento ciascuno, un passo tratto da un testo di William Faulkner che naturalmente, così spezzettato e ridotto a brani e brandelli, finisce per trasformarsi in un’ossessiva e sfiancante litania. Non a caso, infatti, il bellissimo e struggente finale ci mostra Gaspard Bazin costretto a mettersi in coda e a confondersi con i tanti figuranti, come uno qualsiasi di loro: la sala dove si svolgono i provini diviene allora una sorta di “camera verde” del cinema, il luogo dove avviene il funerale della politique des auteurs.
Intanto il produttore, interpretato dal prolifico regista Jean-Pierre Mocky (comparso anche nel recente Le Redoutable, il modesto biopic dedicato a Godard e diretto da Michel Hazanavicius), è tutto preso dai calcoli contabili per far quadrare i conti, ed è ben lontano dalla grandeur del titolo, sebbene una didascalia ci avverta che la sua Albatros Film ha prodotto in passato opere della Nouvelle Vague e perfino un film del grande regista sovietico Sergej Paradžanov. Ma ormai, in questo periodo dominato dalla décadence, il Cinema appare ridotto ad accessorio, come dimostrano le locandine dei grandi classici che fanno mostra di sé negli uffici della casa di produzione (tra cui Giorno di festa di Jacques Tati, La febbre dell’oro di Charlie Chaplin, L’avventura di Michelangelo Antonioni) e un libro su Jerry Lewis (regista molto amato da Godard) appare poggiato su una scrivania. Se la settima arte nasce come “fabbrica dei sogni” ora – commenta amaro il produttore – i sogni non ci sono più: resta solo la fabbrica.
Allo stesso modo, in una delle battute del film viene detto che “Il cinema uccide la vita”. Ma la televisione, uccidendo il cinema, sta ormai compiendo la vendetta così come la Rete forse un giorno ci sbarazzerà della televisione. No, a dispetto del marchio della “Série Noire”, in Grandeur et décadence d’un petit commerce de cinéma mancano tutti i classici elementi del noir: nessuna sparatoria, nessun omicidio. Non ci sono inseguimenti né corpi che stramazzano al suolo: resta soltanto la morte.
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