Infauste feste. Il diritto di non amare il Natale
di Eliana Petrizzi
Chiedo scusa a tutti coloro che amano le feste e che in questi giorni sono a proprio agio. Immagino ci credano sul serio, alle feste intendo, e che siano felici tra luci e parenti, pasti furibondi e ore lunghe come anni. Io li rispetto, ma chiedo pure un poco di attenzione per chi alle feste volta le spalle. E chiedo un sorriso noir per quanto andrò scrivendo, mentre i miei dirimpettai appendono alla ringhiera uno di quei Babbo Natale di pezza che ricordano il corpo di un suicida impigliato durante la caduta.
Ho smesso da tempo di frequentare città e negozi. In giro, conciliaboli di gente ammollo nel più abietto kitsch provinciale. Luoghi comuni e ipocrisie calamitose sprofondano ogni cosa nel nadir della mediocrità. Preferisco restare a casa, dove rimedio alla noia con azioni minime, come cucire un bottone, riparare un guasto, rispondere a un messaggio, lavare una sciarpa.
Feste: orgasmi contraffatti. Auguri e sorrisi: ricami sintetici su una tovaglia da bidet. Pensare di andare e fare basta e avanza, ed è già stanchezza. E tuttavia, sentire pietà per il vizio e la vanità di tutte le cose. Mi ricordo di un Natale da bambina. Camminavo lungo una strada buia, con mia nonna che mi teneva per mano. Faceva freddo e non parlavamo. Sulle colline lontane, costellazioni di paesi tremavano come braci; paesi sconosciuti che immaginavo abitati da donne pietrose e animali il cui ululato misurava le distanze. Ad un tratto, tra gli alberi di un campo vidi piccole luci brillare all’aperto. Non distinsi l’albero su cui erano posate, solo palline di tutti i colori accendersi e spegnersi delicatamente. Quello fu un momento per me di perfetta gioia, e una delle emozioni più forti provate nella vita.
Oggi penso questo: quando un genitore muore la tua casa ha un pilastro in meno, e un poco se ne sta sbieca. Se un altro pilastro è rimasto in piedi bisogna quindi averne cura. Quindi, per prima cosa ringrazio di avere una madre ancora in salute di corpo e di spirito. Resto ad ascoltare i suoi racconti, a dire sì alle poche cose che mi chiede, a frequentare la sua casa, raccogliendo con emozione il modo in cui gioisce per semplici cose. Poi ringrazio per le poche persone a cui tengo, accanto a me e pure loro in salute. L’amore manca, ma l’amore è un seme che non si piace spento; per questo è bene che si stanchi per andare a riprendersi il vento. Ringrazio perché da quando vivo con un uccello libero in casa ho scoperto un nuovo orgoglioso sentimento della vita. La vera festa è – per esempio adesso mentre scrivo – vederlo dormire sulla mia spalla e posargli piccoli baci sulle ali che sanno di miglio. Appena sveglio, vola sulla sedia accanto al cavalletto, e io lo seguo lanciandogli in aria altri baci, che raccoglie schernendosi come una bambina. Quando il mio piccione guarda le cose, ci sono sempre nei suoi occhi stupore ed allerta; occhi sfuggenti e audaci com’è la natura. Se vuole chiedermi qualcosa non emette un suono; resta immobile lì dove ha bisogno, e con la sua fragile presenza chiede. Resto a guardarlo grata mentre, col suo corpo del tutto incapace di infedeltà e cattiveria, di certo pensa, teme, sente, ama, decidendo azioni che riempiono i miei giorni più di tutte le luci accese adesso nel mondo. La solitudine che ho scelto è più gradino che inciampo. È pieno giorno. L’aria fresca che entra dalla finestra è già una buona notizia. Alberi: intelligenza delle astrazioni ornative, alchimia che consola e raccorda nel suo chiaro mistero. Campagna: già la parola dà sicurezza, come un telo teso da basso per chi si lascia cadere. Guardo il verde dei prati e i rami spogli, respiro l’incenso della terra umida. Dove siedo passa in estate la processione più bella che abbia mai visto. Al buio e in silenzio, un corteo di fedeli porta in spalla una Madonna illuminata dai ceri. Mentre la luna rischiara le colline, si sente solo il frullo di un uccello che vola via dalla chioma di un albero.