“La ruota delle meraviglie” di Woody Allen: the Coney Island project
Anni ’50. Ginny (Kate Winslet), ex attrice fallita ed ora cameriera emotivamente instabile, vive con il marito Humpty (Jim Belushi), in un piccolo appartamento all’interno del parco giochi di Coney Island. Dalla loro abitazione i due sono costretti a sentire tutti i rumori provenienti dalle varie attrazioni del parco e hanno sempre sotto agli occhi la “wonder wheel” del titolo. Sulla spiaggia, i bagnanti possono godere della protezione di Mickey (Justin Timberlake), un bagnino di bell’aspetto che sogna di diventare scrittore e con il quale Ginny intreccia una relazione. L’esistenza di questi tre personaggi è sconvolta dall’arrivo improvviso di Carolina (Juno Temple), la figlia che Humpty non vede da cinque anni e che cerca rifugio nell’appartamento del padre dopo essere scappata dalle grinfie del marito gangster.
Giunto ormai alla veneranda età di ottantadue anni, Woody Allen non si arrende e continua a regalare al suo pubblico un film all’anno, un’opera dopo l’altra da quasi cinquant’anni, senza soluzione di continuità, spesso rimestando nella sua filmografia precedente, lavorando per rime interne, associazioni, continuità o contiguità di temi e personaggi ma con la costante e inesauribile volontà di ragionare sull’esistenza, di mettere in scena il complesso universo dei sentimenti, di interrogare lo spettatore e di coinvolgerlo nelle sue riflessioni e, soprattutto, nella sua ricerca del senso della vita. La ruota delle meraviglie, opus n° 48 del regista newyorchese, segna la sua seconda collaborazione con Vittorio Storaro dopo il bellissimo precedente di Cafè society, film d’apertura, fuori concorso, del Festival di Cannes nel 2016. Anche questa volta il sodalizio con il grande direttore della fotografia italiano risulta particolarmente propizio per il regista non solo perché dona al film un grande splendore visivo (La ruota delle meraviglie è quasi dall’inizio alla fine una gioia per gli occhi) ma anche perché riesce a caricare le immagini di una vera e propria funzione narrativa. Questo aspetto è evidente, in particolare, nei colori scelti per circonfondere i due principali personaggi femminili: la nevrotica e tormentata Ginny è avvolta dentro colori forti e caldi, mentre per la più sicura di sé Carolina il colore prevalente è il blu, una tinta che, secondo le parole dello stesso Storaro, “rappresenta quell’ora magica che separa il tramonto del sole dal sorgere della luna”.
Sarebbe tuttavia riduttivo ridurre La ruota delle meraviglie al suo aspetto visivo, quasi a sottrarre ad Allen la paternità del film, addirittura spingendosi fino a fare del direttore della fotografia una sorta di co-autore della pellicola. Infatti, l’ultima fatica dell’autore di Manhattan è un’opera di grande interesse anche in virtù della capacità, tutta alleniana, di ragionare ancora una volta ma con buona capacità di aggiornamento, sul rapporto tra la vita e la rappresentazione di essa, sull’incapacità (se non addirittura l’impossibilità) per gli esseri umani di esistere al di fuori di un ruolo, anzi di vari ruoli, che essi si costruiscono e scelgono di interpretare e nei quali finiscono poi per immedesimarsi per necessità o per puro spirito di sopravvivenza. In questo senso, il personaggio centrale è naturalmente Ginny, che attrice lo è stata per davvero, una sorta di nuova Jeannette Francis (più nota come Jasmine), in quanto richiama il personaggio del film diretto dal regista nel 2012 e interpretato da Cate Blachett, “oscarizzata” per l’occasione. A differenza di Blue Jasmine, tuttavia, qui troviamo un personaggio di estrazione sociale inferiore che è però responsabile, e non vittima, di un tradimento amoroso. In particolare, il primo aspetto mostra tutta la difficoltà del regista quando tenta di raccontare un mondo proletario che egli non pare conoscere a fondo (e che gli provoca qualche scivolone nello stereotipo), a differenza della tagliente e precisa rappresentazione che egli è capace di realizzare quando mette in scena la middle class statunitense, spesso descritta in tutta la sua abiezione.
Tuttavia, il personaggio di Ginny riesce talvolta a strappare qualche emozione e a meritarsi l’empatia dello spettatore: essa è costretta a fare i conti non solo con la sua fragilità ma anche con le intemperanze di un figlio piromane e appassionato di cinema che mette in atto la prima delle due tendenze in maniera compulsiva e fa della seconda una pratica bulimica e priva di emozione; un marito rozzo e dall’orizzonte limitato; un bagnino aspirante scrittore, probabilmente destinato alla mediocrità. Tutti questi caratteri vivono – letteralmente – immersi dentro il parco-giochi, in uno spazio a suo modo concentrazionario, destinato allo sfogo ludico e al divertimento senza sosta. In questo senso, La ruota delle meraviglie sembra dialogare perfettamente con un’altra opera recente realizzata quest’anno, The Florida Project di Sean Baker (in uscita a febbraio nelle sale italiane), ambientato in un motel popolare alle porte di Disneyworld, dove alcune famiglie di inquilini conducono un’esistenza squallida a due passi di distanza dal mondo fatato dominato da castelli di cartapesta. Entrambi i film mostrano con efficacia come le esistenze e le abitazioni dei personaggi finiscono per stridere pesantemente con la vocazione dei luoghi dentro i quali sono immersi.
Per questa ragione, per quanto non privo di inciampi e con un ritmo nella costruzione narrativa che non è sicuramente altrettanto brillante di quello dei suoi grandi film degli anni ’80 (basti citare gli splendidi Hannah e le sue sorelle e Crimini e misfatti), viziato qua e là da soluzioni ed elementi un po’ grossolani e semplicistici (il narratore-bagnino che aspira a diventare scrittore ed è perciò romantico quasi che ogni letterato debba necessariamente possedere questa qualità, la scelta di far dirimere i dubbi esistenziali di questi da un personaggio che dovrebbe essere più illuminato solo perché studioso di filosofia) e con dialoghi cui manca lo smalto e l’arguzia degli anni d’oro, il film centra tuttavia molti bersagli, tra l’altro regalando allo spettatore uno dei migliori e più malinconici finali dell’ultimo Allen: l’ultimo incontro tra Ginny e Mickey sembra infatti voler ricordare allo spettatore che per sfuggire alla futilità dell’esistenza non basta indossare l’abito più bello e invocare una morte tragica. Quella, infatti, è riservata solo ai veri attori.
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