“Funny Games” di Michael Haneke: i cattivi dormono in pace
“Facciamo una scommessa. Scommettiamo che
nel giro di dodici ore sarete tutti morti?”
da: Funny Games
“La rappresentazione della morte reale è… un’oscenità metafisica… La fotografia su questo punto non ha il potere del cinema, essa non può rappresentare che un agonizzante o un cadavere, non il passaggio impercettibile dall’uno all’altro….Grazie al film, si può violare oggi ed esporre a volontà il solo nostro bene temporalmente inalienabile”. Così il grande critico André Bazin, fondatore con Jacques Doniol-Valcroze nel 1951 dei prestigiosi “Cahiers du cinéma”, rifletteva sulla rappresentazione della morte nel suo saggio Morte ogni pomeriggio, scritto nel 1949.
Se non fosse scomparso prematuramente e avesse avuto il tempo di vedere i film di Michael Haneke, uno dei massimi registi viventi, il grande critico francese lo avrebbe probabilmente incluso nel suo elenco di “cineasti della crudeltà”, insieme a Erich von Stroheim, Carl Theodor Dreyer, Preston Sturges, Luis Buñuel, Alfred Hitchcock e Akira Kurosawa. Funny Games (1997), del quale il regista austriaco ha girato nel 2007 anche un remake shot-for-shot (cioè una ripetizione esatta del precedente, inquadratura per inquadratura), è un’opera disturbante e volutamente sgradevole, che contiene al suo interno almeno tre livelli di sadismo. Il primo è quello perpetrato dai due giovani assassini nei confronti della malcapitata famiglia alto-borghese, che viene umiliata, torturata e messa a morte in maniera spietata e gratuita. I due ragazzi non sono infatti interessati né al sesso né al denaro ma sembrano animati da un desiderio di violenza del tutto fine a se stesso. Alla domanda della donna: “Perché fate questo?” non sanno opporre nient’altro che un terribile e amorale “Perché no?”.
Il secondo livello di sadismo è quello del regista nei confronti del pubblico. Haneke ha più volte dichiarato di aver voluto fare un film che si ponesse deliberatamente “contro lo spettatore”, obbligandolo a confrontarsi con il mare di violenza che quotidianamente si riversa nelle sue case dal piccolo schermo e che egli introietta attraverso un certo tipo di film. Non a caso, una delle scene di maggiore vigore icastico mostra un televisore inondato del sangue di una delle vittime. Ancor più spietatamente il regista crea una sorta di complicità tra noi che guardiamo ed i due carnefici. Uno di essi infatti, in più di un’occasione, si rivolge direttamente “fuori” del film, strizzando l’occhio in maniera ammiccante verso la macchina da presa o addirittura tirando il pubblico “dentro” la storia chiedendo esplicitamente il suo parere.
I due assassini del film, d’altronde, non sono dei veri e propri personaggi ma somigliano più ad archetipi. Essi, infatti, cambiano continuamente nome: sono Pietro e Paolo (i due santi più celebri del cattolicesimo), Tom e Jerry (il gatto e il topo dell’animazione creati da William Hanna e Joseph Barbera), Beavis e Butt-head (i due cartoni della celebre seria trasmessa da MTV). Essi sembrano la riproposizione macabra e agghiacciante di molte coppie comiche del cinema e/o dello spettacolo: Bud Abbott e Lou Castello (noti in Italia come Gianni e Pinotto), la celebre coppia di pagliacci formata dal Clown Bianco e dall’Augusto, il Grasso e il Magro (che rimanda alla celebre coppia formata da Stan Laurel e Oliver Hardy).
Infine, ad un terzo ed ultimo livello abbiamo la crudeltà del regista verso i suoi attori, tutti bravissimi e perfettamente in parte, costretti a diventare hitchcockianamente “carne da macello” (secondo un’espressione usata dal regista di Psycho) e a spingere le loro performance ad un livello altissimo e sicuramente sfiancante. Basta citare il lunghissimo piano-sequenza fisso quando i due coniugi, lasciati momentaneamente liberi dai loro torturatori, possono dare sfogo a tutto il loro strazio davanti al cadavere del figlioletto.
Funny Games, film dalla messinscena magistrale ma allo stesso tempo durissimo e annichilente, si pone nel solco tracciato da opere come Arancia meccanica di Stanley Kubrick e Salò di Pier Paolo Pasolini e che arriva sino ad un altro capolavoro successivo, Elephant (2003) di Gus Van Sant, opere capitali che dimostrano come il cinema non sia solo la morte al lavoro sugli attori (come voleva Jean Cocteau) ma anche un’arma di distruzione di massa puntata contro lo spettatore per ricordagli che il suo voyeurismo, condannandolo ad essere complice, gli preclude ogni via di scampo.
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