Gli anni d’oro della “New Hollywood”: il cinema dei belli e perdenti
La “New Hollywood”, a differenza della francese “Nouvelle Vague” e del britannico “Free Cinema”, nati qualche anno prima e maggiormente strutturati, non fu un vero e proprio movimento. Non venne infatti redatto alcun manifesto, non esiste alcuna dichiarazione di intenti, non vennero definiti programmi da realizzare o obiettivi da conseguire. Per questa ragione appare difficile fissare rigidamente i limiti cronologici di un’esperienza cinematografica e artistica di altissimo livello che si nutrì dello spirito del tempo (lo Zeitgeist, secondo un’abusata espressione odierna) e che, sebbene esauritasi alla fine degli anni ’70 (secondo qualcuno, addirittura alla metà di quel decennio), proietta tuttora la sua ombra su certo cinema di oggi “made in U.S.A.”. Basti pensare a cineasti tuttora in attività come Peter Bogdanovich, Francis Ford Coppola, Brian De Palma, George Lucas, Martin Scorsese, Steven Spielberg, che furono tra i massimi protagonisti di quella “età dell’oro” del cinema a stelle e strisce, e agli eredi, veri o presunti, di quella temperie cinematografica come i fratelli Ethan e Joel Coen, il compianto Jonathan Demme e i due Anderson più famosi (Paul Thomas e Wes: di registi con questo cognome se ne contano quasi una decina).
Ma quale fu questo “spirito del tempo”, la fonte che fece scaturire una stagione insuperata (e forse insuperabile) per Hollywood, che tra la fine degli anni ’60 e per tutti gli anni ’70 generò decine di capolavori importando dall’Europa la cosiddetta “politica degli autori” nouvelle-vaghista? Impossibile prescindere dai fatti politici che sconvolsero quegli anni: eventi come gli omicidi di John F. Kennedy e Martin Luther King, la Guerra Fredda, il Vietnam, lo scandalo Watergate furono episodi che intaccarono profondamente le radici del Sogno Americano, che si sarebbe di lì a pochi anni definitivamente sgretolato. Si è parlato spesso, per i personaggi di questi film, di “rebel without a cause”, ribelli senza causa secondo il titolo originale dell’epocale Gioventù bruciata (1955) di Nicholas Ray che fece di James Dean l’icona del malcontento e del malessere esistenziale di molti giovani di quegli anni.
A mio avviso, si tratta di una definizione erronea o, se non altro, semplicistica e incompleta. I protagonisti di opere come Gangster Story (1967) di Arthur Penn, considerato insieme a Il laureato di Mike Nichols il film che segnò il debutto della “New Hollywood”, Easy Rider (1969) di Dennis Hopper, Cinque pezzi facili (1970) e Il re dei giardini di Marvin (1971), entrambi di Bob Rafelson, fino ad arrivare a Taxi Driver (1976) di Martin Scorsese, frutto tardivo ma eccelso dell’iperrealismo di quelle pellicole, sono solo in apparenza assediati da un male di vivere astratto e da un dolore narcisistico e autocommiserativo. In realtà, i personaggi di questi film vedono nel mondo così com’è la “causa” della loro ribellione (perché sì, ribelli lo sono), vivono sulla loro pelle il tradimento della promessa fallita e sono alla ricerca di un riscatto forse impossibile. Infatti, essi sono purtroppo votati allo scacco in virtù della loro incapacità di centrare il vero bersaglio della loro rivolta che definiscono, questa volta sì astrattamente, con il termine “società”, termine che comprende tutto quanto li ha ingannati, e si trovano nell’incapacità di individuare un obiettivo preciso e alternativo che generi una svolta alla loro condizione di losers.
I cineasti della “New Hollywood” si misero a ridisegnare e a rinnovare i generi cinematografici (in questo senso, le opere più importanti e innovative furono probabilmente quelle dirette da Robert Altman), al contempo sferrando un attacco duro e frontale contro la morale corrente. Ne conseguì la riabilitazione del “diverso” con i grandi western filo-indiani (Soldato blu di Ralph Nelson, Piccolo grande uomo di Arthur Penn, Corvo rosso, non avrai il mio scalpo! di Sidney Pollack), l’attenzione ai reietti, agli scarti della società (Un uomo da marciapiede di John Schlesinger, Lo spaventapasseri di Jerry Schatzberg), la celebrazione, specie nel western, nel quale dominava un’atmosfera crepuscolare, dell’antieroe in contrapposizione all’eroe classico incarnato in passato da attori come John Wayne, Gregory Peck o Gary Cooper, la ricerca di un’idea diversa di felicità da cercare soprattutto on the road, per mezzo del viaggio, inteso come possibilità o come fuga, secondo il mito creato dai romanzi di Jack Kerouac (in questo senso, oltre a Easy rider, viene in mente La rabbia giovane, il bellissimo esordio di Terrence Malick).
Il secondo romanzo del grande cantautore canadese Leonard Cohen si intitola “Belli e perdenti” (Beautiful Losers) che è probabilmente il termine migliore, l’ossimoro perfetto con cui definire i protagonisti di molte delle opere maggiori partorite nel seno della “New Hollywood”. Il termine “loser”, che si è utilizzato poco più sopra, comunemente reso in italiano con “perdente”, smarrisce nella traduzione, necessaria ma fredda e vagamente dispregiativa, quel romanticismo di fondo insito nel significato originale che si riferisce a qualcuno sconfitto dalla violenza della Storia, dalla falsità delle promesse non mantenute e dalla propria fragilità ad opporsi al’ottusa e implacabile forza delle cose. Il loser, figura caratteristica nei film della “New Hollywood”, è qualcuno che si sente, probabilmente a ragione, diverso da tutti gli altri e può fare poco o nulla per fronteggiare questa situazione contro la quale mette in scena la sua protesta diventando fuorilegge (ancora Gangster story, Butch Cassidy di George Roy Hill, l’immenso Pat Garrett & Billy the Kid di Sam Peckinpah), condannandosi all’emarginazione e rifugiandosi in una solitudine spesso dolorosa e senza scampo (La conversazione di Francis Ford Coppola, lo splendido Fat city di John Huston) e talvolta reagendo ad essa in maniera violenta e diventando eroe suo malgrado come Travis Bickle di Taxi driver (e sul film di Scorsese si dovrà prima o poi tornare per ragionare sulle sue molte ambiguità).
Negli anni in cui la TV si stava diffondendo in maniera sempre più massiccia, i registi della “New Hollywood” riuscirono a stipulare un nuovo patto col pubblico, proponendogli storie, ambientazioni, modelli e temi del tutto diversi sia dal passato cinematografico che da quelli visibili alla televisione riuscendo a creare un folto numero di nuove icone, spesso da appendere in stanza sotto forma di poster o gigantografia. Le grandi case di produzione hollywoodiane fiutarono l’affare e finanziarono volentieri queste pellicole, certe di un ritorno economico che effettivamente vi fu. In cambio, gli autori ebbero il controllo assoluto del proprio lavoro. Purtroppo, il grande fiasco nel 1980 de I cancelli del cielo di Michael Cimino, che portò al fallimento della United Artists, provocò la fine di questo idillio. Difficile dire, in virtù del discorso sulla cronologia del fenomeno fatto all’inizio di questo contributo, se I cancelli del cielo, opera grandiosa e indimenticabile, possa essere considerato l’ultimo film della “New Hollywood”. Probabilmente ne è stato il canto del cigno e segnò uno dei più grandi conflitti tra arte e industria che la storia del cinema ricordi, il momento in cui si è costretti a realizzare che non solo i personaggio di finzione ma anche i loro creatori possono diventare dei loser e si vedono costretti a confrontarsi con la forza delle cose che a Hollywood assumono sempre più il colore verde della banconote.
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