“Chiamami col tuo nome” di Luca Guadagnino: i turbamenti del giovane Elio
Pascola sulle mie labbra
e se quelle colline saranno asciutte,
vaga più in basso,
dove sono le fontane del piacere
William Shakespeare, Romeo e Giulietta
È l’estate del 1983 nel nord dell’Italia, ed Elio Perlman (Timothée Chalamet), un precoce diciassettenne americano, vive nella villa di famiglia, passando il tempo a trascrivere e suonare musica classica, leggere, e flirtare con la sua amica Marzia (Esther Garrel). Suo padre (Michael Stuhlbarg), un eminente professore universitario specializzato in archeologia greco-romana, e sua madre Annella (Amira Casar) gli danno modo di approfondire la sua cultura in un ambiente che trabocca di delizie naturali. Mentre la sofisticazione e i doni intellettuali di Elio sono paragonabili a quelli di un adulto, permane in lui ancora un senso d’innocenza e immaturità, in particolare riguardo alle questioni di cuore. Un giorno, arriva Oliver (Armie Hammer) un affascinante studente americano di ventiquattro anni, che il padre di Elio ospita per aiutarlo a completare la sua tesi di dottorato. In un ambiente splendido e soleggiato, Elio e Oliver scoprono la bellezza della nascita del desiderio, nel corso di un’estate che cambierà per sempre le loro vite [sinossi].
Presentato in anteprima al Sundance Film Festival del 2017 e approdato poi il mese successivo alla Berlinale, nella sezione “Panorama Special”, il quinto lungometraggio di Luca Guadagnino ha iniziato da allora una cavalcata trionfale che lo ha portato a mietere successi e consensi sia in patria che all’estero: un applauso di circa dieci minuti gli è stato tributato al New York Film Festival, un ottimo riscontro di pubblico e critica ha salutato il suo arrivo nelle sale italiane (è stato designato “Film della Critica” dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani) fino alla notizia, il 23 gennaio scorso, delle quattro nomination all’Oscar: Miglior Film (cosa che non accadeva ad un regista italiano dai tempi de La vita è bella di Roberto Benigni, ed era il 1999), Miglior Attore Protagonista per Timothée Chalamet, migliore sceneggiatura non originale al veterano James Ivory, miglior canzone per la melensa “Mystery of Love” di Sufjan Stevens.
Il cinema di Luca Guadagnino ha sempre messo al centro della narrazione il tema del desiderio, tanto che lo stesso regista ha definito Chiamami col tuo nome il compimento di una “trilogia sul desiderio”, dopo i precedenti Io sono l’amore e A Bigger Splash. In realtà, anche il suo secondo lungometraggio, l’ingiustamente disprezzatissimo Melissa P. (al quale Chiamami col tuo nome è più vicino di quanto si sia voluto riconoscere), faceva scaturire l’insana e compulsiva ricerca sessuale della giovane protagonista dalla mancata soddisfazione di un desiderio amoroso verso un coetaneo. In più, a voler estendere questo stato affettivo oltre la sfera sessuale, anche i due ragazzi omicidi del diseguale esordio del regista, The Protagonists, erano spinti a commettere un assassinio gratuito dal desiderio di vedere che effetto facesse.
Guadagnino si è sempre dimostrato un cineasta colto e raffinato, allevato all’interno di un milieu borghese, sebbene la sua filmografia appaia discontinua nei risultati, una discontinuità che vede non tanto un’oscillazione tra opere riuscite ed esiti meno felici quanto semmai una continua alternanza, all’interno di ogni singola opera, di momenti molto belli e sequenze o segmenti che ne hanno pregiudicato il plauso senza riserve, la piena e convinta ammirazione. Basti pensare, ad esempio, all’ottima prima parte di A Bigger Splash cui fa seguito la ridicola apparizione del commissario interpretato da Corrado Guzzanti, dopo la quale il film diventa fastidiosamente farsesco fino a concludersi con una citazione, forse involontaria, del finale di Sua Eccellenza si fermò a mangiare, l’ultima pellicola girata insieme da Totò e Mario Mattoli.
Ad avviso di chi scrive, anche Chiamami col tuo nome, tratto da un romanzo di André Aciman, non sfugge a questa regola. Infatti, il film non manca di pregi, soprattutto per quanto riguarda l’apparato visivo, rivelando un autore che mostra molta cura nella costruzione delle immagini e sa avvalersi dell’ottimo apporto di Sayombhu Mukdeeprom, già collaboratore di autori del calibro di Apichatpong Weerasethakul e Miguel Gomes.. Il lavoro del direttore della fotografia tailandese restituisce molto bene il nitore e il rigoglio della campagna lombarda durante un’afosa estate del 1983, con grande attenzione all’esplosione dei colori della natura e generando piacevoli contrasti tra gli abiti indossati dai personaggi e le tinte del paesaggio circostante. Molto buona è anche la prestazione del giovanissimo Chalamet, la cui performance è capace di restituire molto bene le inquietudini di un adolescente tanto precoce nell’apprendimento e di cultura smisurata quanto a disagio nella scoperta della sua sessualità. Insomma, una prova da Oscar nell’anno in cui la famosa statuetta vede favorito l’immenso Winston Churchill tratteggiato da Gary Oldman.
Tuttavia, al netto di qualche indubitabile pregio, il film di Guadagnino presenta notevoli cadute soprattutto quando, abbastanza inutilmente, prova ad inserire nella narrazione la Storia, avventurandosi nella riflessione politica, sia in maniera diretta che indiretta, cosa che già l’apparizione dei migranti in A Bigger Splash mostrava non essere molto nelle sue corde. Si va quindi da un’improbabile chiacchierata a tavola in cui una coppia di stucchevoli commensali discute di Craxi, di pentapartito e di Luis Buñuel, tirato in ballo solo perché morto da poco, alla comparsa di Beppe Grillo che in TV denuncia i misfatti di Bettino, dall’entrata in scena, per qualche attimo, di un busto del Duce all’apparizione, inopinata e inutile a fini del racconto e anch’essa abbastanza fastidiosa nella sua caratterizzazione ai limiti del macchiettismo, di due omosessuali, ridicoli nella posa e nell’aspetto. Proprio i personaggi di contorno sono, tra l’altro, uno dei limiti principali del racconto: destano infatti più di una perplessità la Marzia di Esther Garrel (figlia del grande Philippe, grande cantore dell’incostanza e della labilità del sentimento amoroso) e la Chiara di Victoire Du Bois (che compare e scompare dal film in maniera a dir poco inopportuna: si veda, al riguardo, il suo improvviso e intempestivo arrivo alla stazione degli autobus per l’ultimo saluto a Oliver), così come si fa davvero molta fatica a credere nella possibilità che in un piccolo paese dell’Italia degli anni ’80, il padre di Elio possa snocciolare, nel debole finale del film, un monologo così permissivista.
Un altro aspetto che appare poco convincente sono le continue citazioni colte che, ben lungi dall’essere funzionali all’economia narrativa, sembrano in alcuni momenti non avere altro scopo che il mero sfoggio di erudizione. Si passa così dalla lettura di un passo de L’Heptaméron di Marguerite de Navarre nella sua versione tradotta in tedesco (perché?) ad articolate disquisizioni sull’origine del termine “albicocca” (quasi ad anticipare la fatidica scena della sodomizzazione della pesca) al libro di Antonia Pozzi, la cui unica motivazione sembra essere il fatto che Ferdinando Cito Filomarino, collaboratore di Guadagnino, ha realizzato nel 2015 un biopic, peraltro non privo di qualche interesse, sulla poetessa morta suicida nel 1938, dal titolo Antonia., per finire con il dettaglio che mostra tra le mani di Oliver, in maniera a dir poco stonata, la copertina di Armance, romanzo di Stendhal sull’impotenza maschile, un attimo dopo che questi aveva lodato le capacità erettili di Elio al termine di una fulminea fellatio.
Ma, al di là delle stonature e delle lungaggini, l’impressione è che nel corso dei suoi 132 minuti, non tutti necessari, il film paghi una scarsa chimica tra i due protagonisti, complice anche un Hammer troppo legnoso, e che il rapporto tra i due alterni momenti (rari) in cui l’emozione riesce a trovare uno sbocco, ad altri in cui la costruzione del racconto mostra la corda, presentandosi come troppo costruita, estetizzante ai limiti del calligrafismo, quasi a far avvertire la sensazione di trovarsi di fronte ad un prodotto artefatto, incapace di restituire con forza quell’esplosione dei sentimenti che dovrebbe invece essere il cuore pulsante della narrazione. La speranza, allora, è che l’accoglienza del film, eccessivamente trionfalistica, serva a rivalutare con la giusta dose di attenzione e la necessaria mancanza di pregiudizi l’opera precedente di un autore che, oltre alle ombre, ha disseminato anche più di una luce.
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