Berlinale 2018, la comunità dei cani parlanti di Wes Anderson

Una città giapponese nel 2037, un Sindaco dispotico che, a causa di una misteriosa infezione, ha esiliato tutti i cani su una terra completamente ricoperta di spazzatura (è l’isola del titolo), un ragazzino che va alla ricerca di Spots, il suo amico a quattro zampe, ribellandosi agli ordini imposti dall’alto, una comunità dallo spirito libertario formata da una serie di esemplari del “migliore amico dell’uomo”, la rivolta contro il potere costituito, il viaggio e la fuga come scoperta di sé, l’allegria e i buoni sentimenti, il cameratismo tra simili a rimpiazzare la famiglia “tradizionale” (ma non ditelo ai dirigenti di una certa formazione politica che ha tappezzato le città italiane di manifesti in favore di essa). C’è tutto il cinema di Wes Anderson in questo nono lungometraggio dell”autore texano. Sì, perché il regista de I Tenenbaum è uno dei pochi capaci di fare quasi sempre lo stesso film senza risultare noioso o stucchevole, ed anzi riuscendo sempre a catturare l’attenzione dello spettatore più di bocca buona e, allo stesso tempo, a soddisfare le richieste del pubblico e dei critici più esigenti. Un cinema sempre esplosivo e dirompente, traboccante di invenzioni, una serie ininterrotta di intelligenti variazioni sul tema.

Tecnicamente brillante, narrativamente coinvolgente e ben scritto (dallo stesso Anderson su un soggetto cui ha lavorato con i sodali Roman Coppola e Jason Schwartzmann, e con la collaborazione di Kunichi Nomura per la parte giapponese), divertente e di sublime leggerezza, Isle of Dogs è la seconda riuscitissima sortita in stop motion del regista, quasi dieci anni dopo il gustoso Fantastic Mr. Fox (2009). Tra cani logorroici, un giovane aviatore, una coraggiosa reporter scolastica, una quantità di virus mutanti, un’isola mitica con tratti decisamente distopici, il nuovo film di Wes Anderson è una travolgente avventura che strizza l’occhio al cinema giapponese degli anni ’50 e ’60, con il suo campionario di storie abitate da mostri, spesso ambientate in società reduci da disastri climatici e in via di decomposizione. Grande ammiratore di questa cinematografia, Anderson sembra guardare agli splendidi film degli anni ’50 firmati, tra gli altri, da Akira Kurosawa, opere come Cane randagio, L’angelo ubriaco o I cattivi dormono in pace, dove il cineasta nipponico descriveva ambienti e città mettendone in risalto gli aspetti più torbidi. Questi classici sono rivisitati con l’occhio ironico, anarchico e sornione di Wes Anderson che sa trarre il massimo profitto dall’estetica da cartoon di cui il film è impregnato, con pungenti annotazioni sull’esistenza di luoghi concentrazionari e pericolose derive da “soluzione finale”.

Presentato in anteprima alla Berlinale, dove è stato inserito in Concorso, il film segna l’inizio di una competizione che, a giudicare dai titoli in gara, si preannuncia appassionante e piena di sorprese. Isle of Dogs vanta inoltre un vero e proprio parterre de roi di star hollywoodiane, chiamate a dar voce ai cani protagonisti: Bryan Cranston, Greta Gerwig, Jeff Goldblum, Scarlet Johansson, Harvey Keitel, Frances McDormand, F. Murray Abraham, Edward Norton, Tilda Swinton, Ken Watanabe, oltre all’inseparabile Bill Murray e addirittura a Yoko Ono, vedova di John Lennon. Molti degli attori citati sono presenti qui a Berlino per quello che sarà probabilmente il massimo momento di glamour di una manifestazione che, pur non disdegnando lo spettacolo del tappeto rosso e la ressa di fan e fotografi, tende a badare molto al sodo.

Al termine della prima proiezione stampa, che si è svolta in contemporanea in due sale del Cinemaxx, Isle of Dogs ha ricevuto un’accoglienza alquanto tiepida, forse per motivi di scarso gradimento o forse perché nella sala 3 (che è quella che ci è toccata in sorte) la visione del film è stata contrassegnata da alcuni sfarfallii dell’immagine e da diverse sfocature, cosa che è apparsa particolarmente evidente allo scorrere dei titoli di coda, assolutamente illeggibili. Un incidente fastidioso e inconsueto per quella che è per il resto un’organizzazione come al solito impeccabile.

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