Berlinale 2018, da Forum arriva “Yama”, grande lezione di marxismo
Arriva dal passato recente, cioè dal 1985, Yama (titolo inglese Attack to Attack). straordinario documentario firmato da Mitsuo Sato e Kyoichi Yamaoka, uno dei primi colpi al cuore di questa 68° Berlinale, partita sotto i migliori auspici. Il film è stato presentato nella ricchissima sezione “Forum”, vero e proprio scrigno di tesori del Festival. Siamo nella metà degli anni ’80, nella Tokyo più periferica, il quartiere di San’ya (“che non troverete su nessuna mappa”, avverte la voce over di uno degli autori), dove lavoratori a giornata sono sfruttati dagli industriali, perfetti esecutori della dottrina capitalista, i quali sono spalleggiati dai gangster della yakuza, la criminalità organizzata giapponese, e protetti dalla polizia, che si mostra spettatrice passiva dello sfruttamento ed è pronta ad intervenire solo per reprimere ogni tentativo da parte degli sfruttati di tenere alta la testa.
Fin dalle prime immagini, Mitsuo Sato chiarisce che stiamo per vedere un film apertamente militante, un’opera pensata, scritta e realizzata insieme ai lavoratori, fatta per dare loro voce e per camminare al loro fianco. Il cinema si fa così arma che la classe operaia può impugnare per combattere la sua lotta in favore dei diritti negati e per presentare, da un lato, la denuncia della prevaricazione che è costretta a subire, dall’altro la richiesta di migliori condizioni di vita e di lavoro. Il regista Sato è stato così profondamente coinvolto da questo progetto al punto da perdere la vita per mano di una delle bande della yakuza che lo ha assassinato il 22 dicembre 1985. Il film fu poi terminato da un collettivo di registi militanti, capitanati da Kyoichi Yamaoka, il quale fu a sua volta giustiziato un anno dopo il termine delle riprese nel più totale silenzio dei media e delle istituzioni governative. Yama racconta in maniera esplicita e coraggiosa la collaborazione tra le elite giapponesi e la polizia e le bande di criminali della yakuza che guadagnarono enorme potere negli anni ’80 attraverso il controllo delle agenzie di lavoro, negli anni che videro Tokyo alle prese con un vero e proprio boom edilizio. Il film mette sotto accusa i responsabili del brutale sfruttamento della forza-lavoro, messo in atto a danno di quelle persone che la filosofia marxista definiva “esercito industriale di riserva”, arrivando poi a formulare la sempre validissima teoria del plusvalore che evidenziava la sottrazione al lavoratore di buona parte del frutto del lavoro delle sue mani. Lavoratori a giornata, reietti di ogni tipo, disoccupati, stranieri costituiscono la massa che riempie le agenzie interinali, le fabbriche, le miniere (e purtroppo i cimiteri) e ai quali il film dà voce per denunciare gli eccessi di un capitalismo bieco, attraversato da preoccupanti venature di fascismo.
Il film mostra la realtà dello sfruttamento, non disdegnando di dare voce anche alle minoranze geografiche del Paese: non manca, infatti, un’acuta e attualissima analisi delle condizioni di vita della comunità coreana, i cui membri condividono con i lavoratori autoctoni il triste primato di “ultimi della classe”, di “dannati della terra” (per usare la celebre espressione coniata da Frantz Fanon), vittime di un’emigrazione forzata, retaggio delle guerre post 1945, in un discorso che finisce per agganciarsi alla più recente attualità, della quale più che una premonizione sulla situazione che coinvolge oggi i migranti alla ricerca di salvezza in Europa, finisce per farsi lucidissima disamina su corsi e ricorsi storici e sull’inflessibile (ma si spera non inevitabile) ripetizione del medesimo, spietato meccanismo.
La grande forza di un’opera come Yama sta nella sua capacità di evidenziare una serie di contraddizioni che non sono specifiche della società giapponese degli anni ’80 ma che, al contrario, gettano una luce sinistra sul presente, mostrando il perfetto stato di salute del capitalismo che si presenta in forme analoghe in ogni parte del mondo, da Oriente a Occidente, con una terrificante capacità di metamorfosi, unita alla sua forza tentacolare che lo rende simile ed ugualmente perverso ad ogni latitudine ed in ogni momento della Storia. Nella loro denuncia, pagata a caro prezzo, gli autori danno una vera e propria lezione di marxismo, presentandolo come l’unica vera ideologia capace di contrastare queste derive: tra manifestazioni di piazza, assemblee che mettono alle strette i responsabili politici e tribunali del popolo, il film è anche un invito alla collettività a farsi corpo compatto per risollevare la dignità degli oppressi.
Se Yama è, per quanto ci riguarda, il film del giorno, poco è arrivato dal Concorso principale dove oggi sono passati The Heiressees esordio del regista paraguayano Marcelo Martinessi, e Damsel dei fratelli David e Nathan Zellner. Il primo film in questione è un’opera minimalista, che ruota attorno ad una coppia di anziane donne, diverse per temperamento. legate da un rapporto sentimentale. Quando una delle due finisce in carcere per debiti, l’altra scoprirà alcuni aspetti inediti del suo carattere. Interpretata da soli personaggi femminili, The Heiressees è un’opera tutto sommato decorosa sebbene non priva di incertezze, che si è fatta apprezzare per la buona qualità di tutte le attrici (in particolare la protagonista Ana Brun), e la capacità di restituire in maniera vivida e con buona sottigliezza psicologica il termometro interiore dei suoi personaggi. Imbarazzante e da dimenticare, invece, Damsel , una commedia western interpretata, oltre che dai due registi, da Robert Pattinson e Mia Wasikowska, due giovani star incapaci di risollevare un racconto prevedibile in tutti gli snodi narrativi, che ha il suo punto debole in una sceneggiatura a dir poco abborracciata, incapace di dosare il mix che, almeno sulla carta, sarebbe potuto risultare anche curioso.
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