Berlinale 2018, Season of the Devil di Lav Diaz, dolente ballata sulla morte del popolo
Questa storia è la memoria di un cataclisma. Questa storia è la memoria del mio paese.
Lav Diaz, From What Is Before
È il giorno di Lav Diaz oggi alla Berlinale, dove il grande cineasta filippino, i cui film sono celebri per l’abnorme minutaggio più che, come sarebbe giusto e sacrosanto specie da parte degli addetti ai lavori, per la sua grande maestria registica, che ne fa uno dei paladini da parte della critica italiana più militante. Alle 1900 di ieri sera, lo schermo si è acceso sulle immagini di Season of the Devil, 234 minuti per raccontare gli abomini compiuti dalla dittatura militare di Marcos, che nel corso degli anni ha perpetrato atroci delitti, sotto lo sguardo indifferente e complice del mondo occidentale, in particolare degli Stati Uniti, da sempre in prima linea nella protezione dei dittatori. Uccisioni di civili, stupri di donne, incendi di case, occupazioni di scuole, chiusure di ospedali sono alcuni dei crimini commessi a partire dal 1972, anno in cui venne promulgata la legge marziale.
Season of the Devil è ambientato nel 1977 e racconta dell’occupazione di un villaggio da parte di milizie organizzate e armate fino ai denti, le quali avevano ricevuto il permesso e l’autorizzazione a prendere possesso di alcuni luoghi per reprimere ogni tentativo di democratizzazione del Paese da parte dei gruppi politici di sinistra. Le torture inflitte ai cittadini, nella quasi totalità contadini analfabeti, non sono soltanto corporali ma anche di natura psicologica. Oltre agli omicidi violenti e indiscriminati, il potere punta anche a costruire una falsa mitologia, nutrendo il popolo di storie apocrife sul leader del villaggio e diffondendo dappertutto la superstiziione e la credenza in creature misteriose e fantasmatiche, tra le quali una delle più famose è il Kapre, creatura mitica che vive sugli alberi. In questo modo, la “normalizzazione” avviata dai militari viene vissuta e accettata come un fato inevitabile da parte di un popolo incapace di qualsiasi gesto di rivolta.
Non è la prima volta che Lav Diaz si confronta con la storia delle Filippine. Uno degli esempi più recenti è lo splendido From What Is Before (Pardo d’oro al Festival di Locarno nel 2014, ambientato proprio nel 1972), altra fluviale incursione nel corpo marcescente di un Paese incapace di risollevarsi, obnubilato dal senso di colpa e destinato alla più atroce ed amara delle sconfitte. Il maestro filippino, dopo la vittoria a Venezia con The Woman Who Left, ancora vergognosamente inedito in Italia nonostante il Leone d’oro, stava preparando un noir quando ha appreso la notizia della vittoria di Trump alle elezioni e del rischio di guerra nucleare con la Corea del Nord. Ma soprattutto, nel 2016 le elezioni nazionali nelle Filippine sono state vinte da Rodrigo Duerte, per ventidue anni sindaco di Davao. Il nuovo Presidente, definito il “Donald Trump dell’Asia” ha promesso una lotta senza quartiere alla criminalità organizzata mediante l’utilizzo di vigilantes e polizia speciale. I moderati e la sinistra filippina temono una nuova dittatura. Così, interrotto e sospeso il progetto iniziale, Diaz si è messo a scrivere la sceneggiatura di Season of the Devil. Il nuovo parto creativo del regista si è trasformato in un musical senza l’utilizzo di strumenti musicali, che si serve unicamente delle voci degli attori che declamano, nel corso del film, trentatré canzoni, scritte dallo stesso regista (autore anche della sceneggiatura, del montaggio e della realizzazione dei sottotitoli). Salvo rarissimi momenti, il film è infatti interamente cantato, creando nello spettatore un senso di straniamento che in alcune scene ha suscitato l’ilarità degli spettatori (eppure Brecht non è lontano), in particolare quando i carnefici si producevano in sadici ritornelli, laddove nella gente del popolo il canto è anelito alla libertà e alla giustizia, percepite ormai come irraggiungibili.
Non è la prima volta che personaggi di un film di Lav Diaz sono protagonisti di performance canore. Vengono in mente, a riguardo, almeno altri due esempi: una sequenza posta all’inizio di From What Is Before dove una madre intonava uno struggente lamento per la morte del figlio, e la splendida scena di The Woman Who Left in cui le due protagoniste danno vita ad un irresistibile duetto sulle note di un pezzo tratto addirittura da West Side Story. La scelta del musical è probabilmente dovuta al fatto che, oltre a mostrare le atrocità e le esecuzioni sommarie dei golpisti, Season of the Devil è una riflessione sulla centralità del linguaggio e della retorica come strumento di dominio sulle masse da parte del potere. La cosa risulta chiara già dalla prima apparizione in scena di due soldati che ragionano sulla necessità e l’utilità di creare false credenze per incantare il popolo. Soprattutto, quello che appare cruciale nell’economia del racconto, è il modo in cui i carnefici capovolgono il significato delle parole, appropriandosi dei concetti e presentando ogni azione virtuosa come il suo contrario: in questo senso, ad esempio Lorena, la dottoressa volontaria che ha aperto un ospedale gratuito per i poveri nel cuore della foresta viene definita essa stessa “una malattia” dai soldati, i quali naturalmente hanno lo scopo di ristabilire nel Paese “pace” e “sicurezza” contro i “sovversivi”. Questo aspetto duplice della verità e della forza retorica delle parole viene poi presentato in maniera icastica con l’apparizione del dittatore Narciso, presentato come una sorta di Giano bifronte al quale si ubbidisce nonostante parli un linguaggio incomprensibile.
Inoltre, il protagonista del film, Hugo Haniway, è non a caso un poeta ed appare in scena declamando la storia dell'”ultimo filippino” rimasto, esibendosi davanti ad un popolo significativamente bendato in uno splendido piano-sequenza posto all’inizio della narrazione. Hugo, annichilito dalla scomparsa di sua moglie Lorena, appare emotivamente bloccato, incapace di mettere in atto qualsiasi azione per porre un argine alla tempesta che si è abbattuta sulla nazione, immagine simbolica di una cultura spazzata via dalla violenza dei tempi. Girato in un mirabile bianconero, come sempre esteticamente raffinatissimo, Season of the Devil è la lucidissima e dolente disamina dell’irreversibile cortocircuito tra parole e senso, della lotta tra bene e male, dell’assoluto divorzio tra significante e significato. Difficile dire se un’opera del genere, così estrema e radicale (respingente al punto che persino una parte cospicua degli addetti ai lavori hanno preferito abbandonare la sala prima dei titoli di coda), possa ambire a qualcuno dei massimi premi. Tuttavia, per noi è difficile non restare visivamente abbagliati e interiormente annichiliti da un’opera così sofferta, così umana e straziante. Usciamo dalla sala portandoci dietro l’urlo finale di Hugo Haniway, triste eredità di un mondo senza sbocchi: al grande poeta, principe delle parole, resta in bocca soltanto un’espressione ferina, figlia di un dolore ormai impossibile da verbalizzare.
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