Mantenere la linea verticale
Le scelte delle fiction televisive nostrane non brillano in genere per coraggio, preferendo blandire (e/o stordire) il pubblico con archetipi rassicuranti, figure che pagano in termini di share tanto più si tengono alla larga dallo sconfinare nel territorio ignoto dell’innovazione. In quanto popolo di santi e navigatori non siamo messi male anche a sacerdoti e tutori della legge, protagonisti incontrastati del piccolo schermo con l’eccezione recente della controparte malavitosa – vedi le gang di Gomorra o di Romanzo criminale, che seducono col fascino mai tramontato dell’antagonista.
In questo scenario immutabile che pullula di divise e DonMattei elevati all’infinito, fa piuttosto meraviglia un racconto aspro e indigesto che parla di oncologia e ospedalizzazione, argomento che viene evitato volentieri da chi non ne abbia mai avuto esperienza e che smuove ricordi drammatici a chi invece lo abbia conosciuto. Dunque, se la corsia fa da sfondo a romanzetti rosa tutti bisturi e batticuore va bene, se invece racconta l’orrore del corpo impazzito e l’odissea del suo ritorno all’ordine si fanno gli scongiuri e si cambia canale.
A ora di cena, il bisogno di evasione è più forte della tempra morale, favorendo il pullulare di format alla Chi l’ha visto dove la cronaca nera diventa spettacolo morboso vestito d’informazione, motivo in più per ammirare le otto puntate de La linea verticale, vera mosca bianca della nostra programmazione che in termini di novità e azzardo regge il confronto con molti serial stranieri.
Un umanissimo, spaesato, dolente Valerio Mastrandrea è Luigi, protagonista della serie scritta e diretta da Mattia Torre con la produzione di Rai Fiction. Coprotagonista dell’attore romano, prima ancora che la moglie Elena (la brava Greta Scarano) e una serie di ottimi interpreti da Giorgio Tirabassi a Gianfelice Imparato, è la presenza occulta della malattia, il filo conduttore che allinea la vita di pazienti e medici disponendoli capricciosamente da un lato o l’altro di una barricata.
Tutto nasce come in un racconto di Buzzati da un’incrinatura della normalità, il primo segno che si affaccia in sordina nella routine casalinga di Luigi e porta il padre di famiglia ad allontanarsi dalla figlia e la moglie incinta per venire risucchiato nelle maglie della macchina ospedaliera. Il realismo dell’assunto base, lontano dagli intrecci medico-investigativi del Dottor House o dai risvolti melò degli sceneggiati strappalacrime è duro quanto onesto nel suo svolgersi. Nulla di ciò che consegue è indorato da facili tinteggiature emotive. Nulla è consolatorio o sensazionalistico, piuttosto assistiamo alla cronaca di un azzeramento che riduce una persona da individuo a macchinario rotto, con tutte le ansie, le deprivazioni e i bisogni che si ritrova ad affrontare in un ambiente ostile e sconosciuto, affine a qualsiasi dispositivo di reclusione.
Descritta in questi termini, la fiction appare un intollerabile calvario, privo di speranze e dallo spiacevole retrogusto iettatorio. Quel che fa la differenza, invece, è il linguaggio surreale e ricco di intelligente ironia di Mattia Torre, autore del libro da cui è tratta la serie e già coautore delle tre stagioni di Boris, forse la più graffiante e geniale produzione seriale italiana. Forte di questo background non convenzionale e la sua diretta esperienza documentata dal romanzo edito da Baldini & Castoldi, Torre analizza il microcosmo del ristretto mondo ospedaliero con il rigore di un entomologo, portando alla luce la vita nascosta che anima quel piano zero di esistenza, facendogli assumere proporzioni smisurate per l’insospettabile ricchezza e calore umano.
Nelle file mal assortite di dolenti e soccorritori, tutti intrappolati nel loop dello stesso copione che si ripete, si instaurano amicizie, si scambiano visioni del mondo, si condividono speranze e timori. Le varie figure che riempiono le puntate commentate dalla voce off di Luigi/Mastrandrea, formano un mosaico autonomo di dinamiche e microstorie, tutte paradossali e riconoscibilissime, in cui si dipana la trama portante ossia la ricerca della perduta “linea verticale”, l’asse che ci tiene in piedi in qualità di individui sani.
Sui due schieramenti opposti, troviamo una nutrita presenza degli interpreti di Boris, perfettamente calati nel clima agrodolce da dramma/commedia orchestrato dall’autore. Paolo Calabresi è Don Costa, prete colpito nel fisico e nelle certezze religiose, Giorgio Tirabassi è un amabile, ventrale ristoratore che, pure se attrezzato di una sorprendente cultura medica fai-da-te, si strugge per le privazioni della dieta nemica di ogni libertà alimentare, Ninni Bruschetta e Antonio Catania sono medici che vivono nella zona d’ombra di chi cerca di tenersi a galla coltivando tic, rituali e un protettivo cinismo. Non meno efficaci nel ritrarre una fauna più o meno tipica di reparto sono l’infermiera esaurita Giusy /Cristina Pellegrino, brusca e ruvida ma fondamentalmente vulnerabile, così come resta memorabile la disamina del “balletto” del chirurgo in visita, incarnazione medica del Godot di Beckett, i cui piedi orchestrano con sapienza consumata una fuga-senza-fuga dal paziente che chiede disperatamente notizie del suo decorso.
Sono moltissime,comunque, le altre presenze eccellenti della galassia ospedaliera, tutte rese patetiche dalla propria condizione ma riscattate da personalità a tutto tondo e una messa in scena ricca di trovate sia visive e di sceneggiatura. Citiamo tra i tanti l’antiquario iraniano Amed/Babak Karimi, trattato con il paternalismo riservato agli extracomunitari, oppure la figura tenera di Peppe/Gianfelice Imparato, veterano di altri ricoveri di cui nessuno ha memoria. Su tutti svetta la vicenda personale di Luigi, che per esigenze narrative è il focus della trama, racconto sostenuto dalla bravura di Mastrandrea, sempre misurato e credibile in situazioni sofferte dove la sua maschera attonita di brav’uomo è lo specchio in cui si riflettono le nostre debolezze.
Parlare de La linea verticale ne mortifica fatalmente lo spessore nella semplificazione di una sinossi, perché dell’irregolarità, dell’infrazione alle norme televisive questa fiction fa il proprio punto di forza combinando generi, atmosfere e linguaggi in forme non stereotipate. Un punto segnato da una produzione nazionale che finalmente non corteggia il pubblico facendosi carico di buttare uno sguardo, con un sorriso amaro, dietro il velo di argomenti ritenuti invendibili per rivelarcene con grazia bassezze ed eroismi.