“Quello che non so di lei” di Roman Polanski: la donna che scrisse due volte
Delphine è autrice di un romanzo intimo, dedicato a sua madre, divenuto un best-seller. Logorata da sollecitazioni e richieste di ogni tipo e resa fragile dal ricordo, Delphine è tormentata da lettere anonime che l’accusano di aver dato la sua famiglia in pasto al pubblico. La scrittrice è in crisi, terrorizzata all’idea di doversi rimettere al lavoro, come richiestole dalla sua editrice. Sulla sua strada, un giorno incrocia la misteriosa Lei (sta per “Leila”, le spiega la donna), una giovane ammiratrice che si dimostra seducente, intelligente, intuitiva. Lei comprende Delphine meglio di chiunque altro e la romanziera le si attacca, si confida, le si abbandona. Quando Lei si stabilisce a casa di Delphine, la loro amicizia prende una direzione inquietante. La donna è venuta a colmare un vuoto o a rubarle la sua vita? [sinossi].
Roman Polanski e Olivier Assayas, rispettivamente regista e co-sceneggiatore. Una storia di manipolazione, di dominio, piena di suspense, che si svolge in luoghi angusti dove il sentimento di reclusione ha un ruolo preponderante. Insomma, la reiterazione dello schema già sperimentato in opere straordinarie come Cul de sac, Repulsion e Rosemary’s baby. E poi, un racconto con al centro due donne e probabilmente un fantasma. E allora la mente non può che andare a Sils Maria e Personal Shopper, le ultime due regie dell’ex critico dei “Cahiers du cinéma”. Insomma, Polanski e l’Assayas più recente non potevano che generare un incontro proficuo, intrigante, riuscito e, per questa ragione, D’après une histoire vraie (questo il titolo originale della pellicola, tratta da un romanzo di Delphine de Vigan) ha tutte le apparenze del film-summa, compendio delle ossessioni e dei luoghi tipici del grande cineasta polacco e delle recenti, originalissime incursioni cinefile del regista de L’Eau Froide.
Come La nona porta e L’uomo nell’ombra, Quello che non so di lei (titolo italiano sconclusionato e depistante) ha al centro della vicenda un libro, che è il McGuffin utilizzato dal regista, per una storia che vuole parlarci a suo modo della nostra età di crisi. Nel mettere al centro della narrazione una scrittrice smarrita, interpretata da una bravissima Emmanuelle Seigner, preda del famigerato “blocco” creativo, il film non rispecchia soltanto la difficoltà di espressione di un’artista in difficoltà ma anche, e probabilmente soprattutto, la sua impossibilità di mettersi in relazione con l’Altro, come dimostrano i suoi falliti tentativi di mettersi in contatto con i suoi figli o di riconciliarsi con il fantasma materno. A questo punto, l’arte diventa il mezzo attraverso il quale si realizza la necessità di costruire qualcosa in cui credere, qualcosa che si presenti “vero” appunto (secondo il titolo) senza necessariamente porsi come “reale”, delegando all’oggetto artistico, creato e plasmato dalla mente, il compito di ri-fare il mondo e, in questo modo, ri-farsi attraverso la finzione. Si può dire, in fin dei conti che, senza gli estremismi linguistici e gli arzigogoli utilizzati da Charlie Kaufman, in solitudine o in combutta con Spike Jonze, in opere come Il ladro di orchidee e Synecdoche, New York, anche Quello che non so di lei è a suo modo un film-cervello, che sceglie simboli semplici, e talvolta persino troppo elementari (la cantina come immersione nel profondo e nell’ignoto, lo scambiarsi di ruolo e di abiti delle due splendide protagoniste per sottolinearne la sostanziale intercambiabilità), per veicolare discorsi complessi. Come in Luna di fiele, Carnage e Venere in pelliccia il regista utilizza il jeu de massacre come mezzo per squadernare la sua tesi, facendo duellare, per la prima volta nella sua filmografia, due donne, e realizzando un’intrigante commistione di thriller e commedia nera grazie all’apporto di Emmanuelle Seigner, complice perfetta del regista, cui fa da contraltare una straordinaria Eva Green.
Accolto con eccessivo sussiego all’ultmo Festival di Cannes (dov’era Fuori Concorso), Quello che non so di lei è uno dei film più apparentemente leggeri e spiritosi di un ottuagenario che non smette di usare il cinema per divertirsi e giocare con lo spettatore, ma al contempo non rinuncia credere al ruolo dell’arte come unica arma per uscire da se stessi attraverso l’incanto della creazione.
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