“Eyes Wide Shut” di Stanley Kubrick, il cinema è il doppio sogno dello spettatore
“Nessun sogno è mai soltanto sogno”.
Da Eyes Wide Shut
Pochi giorni dopo la morte di Stanley Kubrick, avvenuta ormai diciannove fa, invitando a casa sua alcuni amici, Steven Spielberg racconta di avere mostrato loro la scena finale di Orizzonti di gloria, il capolavoro del 1957 che raccontava un episodio della Grande Guerra, allo scopo di dimostrare come Kubrick fosse un regista profondamente emotivo, molto diverso da quell’immagine che si era creata intorno a lui di cineasta freddo, se non addirittura glaciale, di personaggio schivo, la cui riservatezza non era che il prodotto della sua presunta misantropia. La scena in questione mostrava infatti una donna tedesca (interpretata da Christiane Suzanne Harlan, che poi sarebbe divenuta la signora Kubrick) che cantava una canzone commuovendo sino alle lacrime il plotone di soldati francesi che stava ad ascoltarla.
La prima cosa che mi venne in mente ascoltando questo racconto del regista di E.T. fu che, nel corso della successiva filmografia kubrickiana, non pare vi siano molte altre sequenze capaci di suffragare questa ipotesi. Poi, nel 1999 uscì il nuovo film-evento del maestro newyorchese, il suo attesissimo e (purtroppo) ultimo meraviglioso lavoro: Eyes Wide Shut, tratto dal bellissimo Doppio sogno di Arthur Schnitzler. Quando vidi il film per la prima volta uscii dalla sala con una sensazione strana nel cuore. Per farmi un’idea più o meno precisa di quello che pensavo di quell’opera sofisticatissima, la cui complessità potevo a malapena intuire, dovetti rivederla altre due volte, a distanza di una settimana.
La domanda che mi posi era molto semplice: che cosa avevo visto, quale tipo di rappresentazione si era svolta davanti ai miei occhi? La tentazione di rispondere: beh, il film racconta una banale storia di coppia, con tradimenti desiderati, sfiorati, mancati o sognati con tanto di pacificazione finale era forte. Ma ovviamente non si trattava soltanto di quello. Con il suo assoluto rigore geometrico, con la sua straordinaria precisione compositiva (impossibile trovare una sbavatura, un’inquadratura che non fosse perfettamente calibrata), con la sua sbalorditiva capacità di riempire sia il filmico che l’extra-filmico di segni e significati, che il breve spazio di un articolo non consentono purtroppo di approfondire, Eyes Wide Shut era un film assolutamente destabilizzante, un oggetto misterioso nel quale si entrava e dal quale si usciva come si entra e si esce da un sogno.
Apparentemente lucido e freddo come un diamante, ancora una volta dominato da una visione antropologica talmente negativa da non lasciare scampo alcuno, l’ultimo film di Kubrick aveva in realtà la prodigiosa capacità di far condividere allo spettatore lo stesso spazio mentale e gli stessi sentimenti del protagonista: il dottor Bill Harford, interpretato da Tom Cruise. Durante una notte di vagabondaggi, questo personaggio compie una sorta di periplo per ritrovare le persone che aveva già incontrato ma esse si rivelano per lo più irraggiungibili. Allo stesso modo, anche lo spettatore è tuffato, per non dire risucchiato, dentro un’atmosfera ed una serie di fatti che gli lasciano addosso un sentimento di straniamento che si rivela assai simile a quello vissuto dal protagonista. Il film è un magistrale esempio di mélange tra il realismo più minuzioso delle azioni e l’ambientazione quasi fantasmatica in cui esse si svolgono.
Ci troviamo di fronte ad una messa in scena cinematografica così prodigiosa e raffinata che non soltanto, come è evidente sin dal titolo, il confine tra realtà e sogno è tutt’altro che ben delimitato, ma dove si richiede costantemente allo spettatore di entrare dentro le esperienze interiori (vissute, immaginate o semplicemente sognate) dei protagonisti, in particolare quelle di Bill/Cruise.
Per questa ragione, Eyes Wide Shut sembra raggiungere un risultato persino più strabiliante di quello auspicato da Spielberg, puntando a realizzare un’idea di cinema che vuole spingersi ben oltre la semplice partecipazione emotiva alle vicende narrate o l’identificazione tout court tra lo spettatore e il personaggio: l’ultimo capolavoro di Stanley Kubrick è il film definitivo che annulla il confine tra visione e partecipazione, è il doppio sogno dello spettatore.
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