Lo “gnommero” del dottor Ingravallo e la deformazione del reale
di Marco Antonio D’Aiutolo
“Nella sua saggezza e nella sua povertà molisana, il dottor Ingravallo, che pareva vivere di silenzio e di sonno sotto la giungla nera di quella parrucca, lucida come pece e riccioluta come d’agnello d’Astrakan, nella sua saggezza interrompeva talora codesto sonno e silenzio per enunciare qualche teorica idea (idea generale s’intende) sui casi degli uomini: e delle donne…
Sosteneva, fra l’altro, che le inopinabili catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti. Diceva anche nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomito”.
L’idea del dottor Ingravallo, secondo la quale la vita, la realtà, il mondo, con tutto il loro accadere, siano uno “gnommero” o uno “gliuommero”, cioè “una molteplicità di causali convergenti”, caratterizza tutta l’opera di Carlo Emilio Gadda. Non a caso, Italo Calvino menziona l’autore in Lezioni americane per introdurre il tema della sua quinta conferenza sulla “Molteplicità”. Dopo aver riportato per intero l’incipit di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (da cui sono tratte le citazioni riportate in esergo a questo contributo), Calvino parla della “vocazione del romanzo contemporaneo, come enciclopedia, come metodo di conoscenza, e soprattutto come rete di connessioni tra i fatti, tra le persone, tra le cose del mondo”. Infatti, la filosofia di Gadda vede il mondo “come un ‘sistema di sistemi’ in cui ogni sistema singolo condiziona gli altri e ne è condizionato”. Per tutta la vita, egli cercò di rappresentare il mondo come un garbuglio, un groviglio, o gomitolo, senza attenuare l’inestricabile complessità che caratterizza la realtà, quella presenza simultanea degli eventi più eterogenei che concorrono a determinare ogni evento. Un aspetto che caratterizzò la stessa vita dell’autore.
A tal proposito, è istruttivo e di estremo fascino il Ricordo di Gadda che Pietro Citati ricostruisce nella prefazione al romanzo edito da Garzanti Editori. Una delle cose che Citati maggiormente apprezzava in Gadda era proprio l’intensità e la ricchezza di ogni singolo momento della sua vita. Il momento, infatti, per Gadda, era proprio un nodo, appunto “un groviglio”, “gliuommero”. Esso è “spesso, folto, denso, quasi impenetrabile, dove convergevano il passato (di Gadda e del mondo), il presente, il futuro, la realtà, il sogno, il tragico, il comico, la colpa, il rimorso, l’immaginazione, il gioco, la follia e ‘tutte le male bestie’, come nella pendola delle streghe del Macbeth. Niente poteva essere dimenticato o cancellato”.
Inoltre, Citati, mette a confronto Gadda e Manzoni, autore che l’autore de La cognizione del dolore apprezzava con “un sentimento di venerazione privata”. Citati racconta, tra le altre cose, di aver letto a Gadda, qualche giorno prima della sua morte, l’ottavo capitolo: don Abbondio che si chiede chi fosse Carneade; Agnese che distoglie e allontana Perpetua chiedendole se era stata rifiutata, come dicevano, da Beppe Suolavecchia e da Anselmo Lunghigna; Tonio e il fratello che, a tarda sera, pagano il loro debito a don Abbondio; la sorpresa di Renzo e Lucia che vogliono farsi sposare, quella dei bravi in casa di Agnese e Lucia, il suono delle campane a martello. Si trattava, osserva Citati, proprio di “quel casuale e gioioso formicolio della vita, che Manzoni e Gadda amano tanto”.
Insomma, per usare ancora le stesse parole che il Nostro fa dire al dottor Ingravallo: “La causale apparente, la causale principe, era sì, una. Ma il fattaccio era l’effetto di tutta una rosa di causali che gli eran soffiate addosso a molinello (come i sedici venti della rosa dei venti quando s’avviluppano a tromba in una depressione ciclonica) e avevano finito per strizzare nel vortice del delitto la debilitata ‘ragione del mondo’”. Un pasticcio ben amalgamato, quindi: un “pasticciaccio”!
Questa visione di Gadda, sostiene Calvino, dipendeva dalla sua formazione intellettuale, dal suo temperamento di scrittore, e dalla sua nevrosi. Egli era ingegnere, nutrito di cultura scientifica, competenze tecniche e passione filosofica. Come scrittore (che Calvino paragona ad un Joyce italiano), Gadda “ha elaborato uno stile che corrisponde alla sua complessa epistemologia, in quanto sovrapposizione dei vari livelli linguistici alti e bassi e dei vari lessici. Come nevrotico, Gadda getta tutto se stesso nella pagina che scrive, con tutte le sue angosce e ossessioni, cosicché spesso il disegno si perde, i dettagli crescono fino a coprire tutto il quadro”. Forse è per questo che il Pasticciaccio, che doveva essere un romanzo poliziesco, resta alla fine una sorta di finto giallo, senza soluzione.
Siamo dinanzi a ciò che Calvino definisce “l’enciclopedismo di Gadda”. In base ad esso, “ogni minimo oggetto è visto come il centro d’una rete di relazioni che lo scrittore non sa trattenersi dal seguire, moltiplicando i dettagli in modo che le sue descrizioni e divagazioni diventino infinite. Da qualsiasi punto di partenza il discorso s’allarga a comprendere orizzonti sempre più vasti, e se potesse continuare a svilupparsi in ogni direzione arriverebbe ad abbracciare l’intero universo”.
Ed è qui che entra in gioco la peculiarità dell’epistemologia gaddiana, intesa come deformazione del reale. Ne parla sempre Calvino citando Gian Carlo Roscioni, autore de La disarmonia prestabilita, il saggio critico fondamentale sull’epistemologia implicita nella scrittura di Gadda.
Per Roscioni, la conoscenza delle cose correlate esige che tutto sia esattamente nominato, descritto, ubicato nello spazio-tempo. Ciò avviene mediante lo sfruttamento del potenziale semantico delle parole, di tutta la varietà di forme verbali e sintattiche con le loro connotazioni e coloriture e gli effetti il più delle volte comici che il loro accostamento comporta. Ora, la comicità grottesca, che raggiunge punte di disperazione smaniose e che rappresenta la visione di Gadda, non è che un processo di deformazione del reale. “Prima ancora – scrive Calvino – che la scienza avesse ufficialmente riconosciuto il principio che l’osservazione interviene a modificare in qualche modo il fenomeno osservato, Gadda sapeva che ‘conoscere è inserire alcunché nel reale; è quindi, deformare il reale’. Da ciò il suo tipico modo di rappresentare sempre deformante, e la tensione che sempre egli stabilisce tra sé e le cose rappresentate, di modo che quanto più il mondo si deforma sotto i suoi occhi, tanto più il self dell’autore viene coinvolto da questo processo, deformato, sconvolto esso stesso.”
Calvino è convinto che sia proprio questa passione conoscitiva che permette a Gadda di riportare l’oggettività del mondo alla sua stessa soggettività, la quale è – a suo avviso – una soggettività disperata. E questo è vero, se si considera che anche Citati definisce Gadda un “eroe plutarchesco”, cioè un eroe fallito, o sconfitto, “dimenticato dallo sguardo di Dio”. Come tale, egli abitava lontano dalla realtà: questo caos di carte sporche, gusci d’uovo, sciocchezze, turpitudini, trivialità, delitti, scene comiche, gioielli, suoni, voci, leggi nascoste, che alla fine formano una polpa coloratissima.