“I sette samurai” di Akira Kurosawa, l’ultimo imperatore del cinema
Nel mio Paese tutti mi chiamano l’Imperatore
ma io mi considero piuttosto uno schiavo, lo schiavo del cinema
Akira Kurosawa
La vittoria del Leone d’oro a Venezia con Rashômon nel 1951 rivela all’occidente il cinema giapponese e il talento di un nuovo grande Autore: Akira Kurosawa. Nelle edizioni successive della Mostra sarà Kenji Mizoguchi, altro straordinario cineasta, a far brillare sul Lido la stella nipponica conquistando tre premi consecutivi: l’International Award (equivalente del Leone d’argento, quell’anno non assegnato) per Vita di O’Haru, donna galante nel 1952, e due Leoni d’argento nel 1953 e 1954, rispettivamente per I racconti della luna pallida d’agosto e L’intendente Sanshô.
Il 1954, anno a dir poco di grazia, il premio venne diviso da Mizoguchi con altre memorabili opere, diventate pietre miliari della storia del cinema: La strada di Federico Fellini, Fronte del porto di Elia Kazan e I sette samurai di Akira Kurosawa. Il film di Kurosawa si presentava come un’opera monumentale, un kolossal la cui durata spaventò la distribuzione dando vita a tutta una serie di edizioni tagliate senza l’approvazione del regista. Si va dall’edizione più lunga di 207 minuti proiettata a Venezia, a quella di 130 minuti, distribuita sul mercato italiano e nella quale i samurai del titolo sono ridotti a quattro, rendendo la trama di difficile comprensione (questi censori-sarti molto spesso ignorano che accorciando un film lo si rende spesso più complesso e difficile da digerire e quindi, paradossalmente, più “lungo”). In mezzo, una versione doppiata di 192 minuti disponibile in DVD che, sebbene ridotta di qualche scena, restituisce praticamente intatta la grandezza del capolavoro kurosawiano.
Come si può intuire, I sette samurai ebbe una gestazione lunga e travagliata: le riprese durarono circa un anno e il costo totale del film, prodotto dalla Tohō, si aggirò attorno ai 300 milioni di lire (del 1954) facendone per anni il film più costoso della storia del cinema giapponese e il più lungo mai girato da Kurosawa (se si esclude la versione lunga, ma successivamente mutilata, dell’Idiota, opera tratta dal romanzo di Dostoevskij, della durata iniziale di 265 minuti scorciata poi a poco più di due ore e quaranta). Fu proprio la straordinaria forza di carattere del regista e la sua capacità di resistere alle pressioni dei produttori a consentire di portare a termine il film garantendo al regista il soprannome di “Tenno”, cioè imperatore. I sette samurai è un’opera memorabile, un film che attraversa e mescola con straordinaria maestria una vasta gamma di generi: il film d’azione e d’avventura, il dramma storico, l’epica cavalleresca da chanson de geste, il racconto picaresco, il film di cappa e spada di ambientazione medievale. A conti fatti, e come intuì l’industria cinematografica statunitense replicandolo con I magnifici sette di John Sturges nel 1960, I sette samurai era uno splendido e fiammeggiante western che ebbe tra i vari meriti quello di demitizzare la figura del samurai, circondato sino a quel momento da un’aura quasi sacrale di eroe impavido. Il film ne restituisce invece tutta la fragilità di uomo che, almeno inizialmente, accetta di difendere i contadini dalle minacce dei briganti in cambio di una parte dei loro raccolti: l’eroe ideale di tanta letteratura diventa nelle mani di Kurosawa (peraltro discendente di samurai) un ronin, figura molto simile a quella del mercenario, uomo d’armi pronto a mettersi sul mercato per trarne il maggior guadagno possibile.
Tuttavia, tra i samurai messi in scena nel capolavoro kurosawiano, non mancano alcune figure memorabili e valorose, pregne di abnegazione e umiltà, come il capo Kambei, interpretato da Takashi Shimura (uno degli attori-feticcio di Akira l’imperatore) o il silenzioso e contemplativo Kyuzō (l’attore Seiji Miyaguchi, la cui impassibilità è degna di un Buster Keaton). Una notazione a parte merita il “falso samurai” Kikuchiyo disegnato da un istrionico e indimenticabile Toshiro Mifune. Infido, bugiardo, rodomonte, a dir poco bizzarro con la sua fisiognomica ai limiti della macchietta, Kikuchiyo è un personaggio splendido, che sembra uscito dalla penna di Ludovico Ariosto o Luigi Pulci, il soldato fanfarone e millantatore ma capace di riscattarsi tirando fuori tutto il suo eroismo e il suo coraggio, a prezzo della vita, nello straordinario e memorabile finale del film, girato sotto la pioggia e il fango, in una delle più sconvolgenti e intense battaglie mai viste al cinema.
Al di là dei meriti artistici, della bellezza plastica delle immagini, della straordinaria caratterizzazione dei personaggi, I sette samurai, come molte altre opere di Kurosawa, deve la sua grandezza alla profondità con cui il maestro giapponese dipinge un universo morale limpido e positivo dal quale trasuda, pur nel racconto della terribilità e della ferocia della Storia, una fede sconfinata nell’animo umano.
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