Stranezze dal Piemonte – Ipnagogica
Il territorio italiano con il suo patrimonio di varietà culturali, di folklore, di immaginari favolistici, è altrettanto ricco di incubi che si legano strettamente alle identità locali producendo mostruosi abitanti, espressioni di paure ataviche e superstizioni che attraversano le epoche più lontane. Ogni regione ha i suoi feticci che portano frammenti di oscurità anche nelle aree geografiche più assolate, si pensi ai Mamutones sardi e alle Janare campane, fratelli e sorelle dei nordici Orcolat del Friuli, delle Basure liguri o delle borbottanti streghe piemontesi. E proprio dalla terra sabauda che ha dato vita alle Masche proviene il gruppo di scrittori raccolti intorno al movimento denominato Strän, una sigla che unisce sotto l’egida del weird e dell’horror autori conosciuti come Davide Mana, Maurizio Cometto, Samuel Marolla, Fabrizio Borgio e Christian Sartirana.
L’identità collettiva del gruppo non travalica affatto le singole, spiccatissime, personalità ma pone all’attenzione dei media il fermento che anima la regione, attiva da tempo nel solco della letteratura macabra con il contributo di diverse generazioni di autori, dal prolifico scrittore e saggista Danilo Arona al più giovane Luigi Musolino.
Il drappello degli Strän nasce nel 2018, proponendosi in cicli di incontri pubblici patrocinati dalle edizioni Acheron, la casa editrice a vocazione internazionale che da qualche anno dà prova della varietà di ispirazione dei suoi autori con eleganti antologie come le raccolte Black tea di Marolla e Heptahedron di Cometto o la recente Ipnagogica di Christian Sartirana.
Il trentacinquenne scrittore di Casale Monferrato si è fatto conoscere con l’antologia personale Una collezione di cattiverie per le edizioni Il Foglio Letterario, alimentando dal 2013 un’apprezzata produzione narrativa con racconti e romanzi brevi apparsi sia in raccolte che e-book singoli, quali La gente della marea (Nero Press 2016) o Le cose oscure (Delos Digital 2016).
Con le storie angoscianti di Ipnagogica, ora ci pone a confronto con una domanda che sottende ogni prova, cioè: cos’è l’orrore e perché non riusciamo a non essere affascinati dai suoi topoi più inquietanti?
La percezione della realtà, Matrix permettendo, ci confermerebbe di essere parte di un universo oggettivo, concreto, stabile in cui anche le deroghe più tragiche alla normalità rientrano sempre nell’ambito del naturale. Ma l’impossibile, la stonatura emergono dagli scantinati meno frequentati del nostro io e minano ogni convenzione sconvolgendone le regole. Stando sulle tracce di questo seducente enigma Sartirana scandaglia la memoria inconscia di una frattura, residuo di quei dolori e traumi rimossi che infestano come tanti fantasmi la nostra coscienza. Da qui ne plasma le forme con meticolosità artigiana e calibro da studioso, costruendo intrecci dall’impianto realistico che cede poco a poco mostrando la propria completa permeabilità da parte dell’incubo.
L’uso di un linguaggio curato, puntuale, immerge gli sfondi urbani in una dimensione tra l’onirico e il simbolico, avvicinando la scrittura dell’autore a modelli anglosassoni che lasciano echi delle proprie frequentazioni, si pensi alle favole malate di Ramsey Campbell o alla sospensione del reale di Ballard, elementi stranianti che sostengono le trame e ne accentuano la resa sfumata e scioccante del finale.
Il risultato è pauroso, ma senza autocompiacimenti.
L’invenzione artistica, pur non volendo rassicurare il lettore (anzi, proprio il contrario) in qualche modo cerca di esorcizzare il problema col suo portarlo alla luce, lasciandoci intravedere il mostruoso per potersene difendere. Una procedura che ne raffredda il potenziale distruttivo, l’ossessività, il potere occulto consentendoci il distacco di essere suoi spettatori nella posizione privilegiata di chi assiste a un’autopsia dall’altra parte del tavolo operatorio.
I cinque racconti che compongono l’antologia della Acheron Books si appoggiano a schemi consolidati della narrativa dell’orrore, tutti rappresentativi di ansie comuni. La perdita di controllo o di relazione con ciò che ci circonda si traduce nel corpo che si ribella, la città che si fa estranea, il nostro vicino di casa che nasconde qualcosa di tremendo, o gli oggetti diventati autonomi e prepotenti, ma soprattutto ostili.
Nel primo brano La manina, troviamo una figura di protagonista disadattato che vive la propria diversità col dolore di chi ha una menomazione, in questo caso una mano malforme che odia, nasconde e teme allo stesso tempo. Il focus narrativo è puntato tutto sulla progressiva follia di Danny “Manina” sviluppante un’avversione patologica e distruttiva verso quella parte di sé che lo allontana dagli altri e che lo spinge in un delirante tentativo di liberarsene.
La descrizione dell’ambiente, la quotidianità del protagonista, la stessa mediocrità di chi lo circonda sono una leva di forza dell’autore che combina realismo e simbolo in una parabola dallo sviluppo un poco prevedibile, ma riscattato da un’ottima gestione della sceneggiatura e dall’efficacia dei dialoghi, freschi e credibili. Il senso di osservazione di Sartirana fotografa con precisione ambienti e attori, rendendone le presenze riconoscibili e vive con pochi tratti e parlate che ne esprimono la psicologia. Con le medesime armi sono sbalzate le situazioni impossibili de La porta, un salto senza ritorno nel mistero della creazione pittorica, fagocitante e ingovernabile come ogni ossessione, e l’omologazione coatta de Le facce bianche, flash stilizzato e carico di simbologie, con una disperata conclusione che non consente vie d’uscita.
Più aperto a un “lieto fine” e una spiegazione (per quanto sinistra e minacciosa) è il riuscitissimo Una collezione di cattiverie, magistrale finestra socchiusa sul male tratteggiato dal ritratto di una strega moderna, resa abilmente da una narrazione tutta a sottrarre che nel non detto trova la propria cifra più efficace. Conclude la raccolta un altro racconto di estrema qualità, La memoria della polvere, basato su un tema potente poco utilizzato dagli autori horror, e che richiama nello spunto un omologo metafisico, Polvere, raccontato da Massimo Citi nella sua raccolta In Controtempo (CS_libri, 2007). In comune col testo del raffinato scrittore torinese ritroviamo lo stratificarsi della polvere passato da incubo domestico a condizione di disfacimento, un degrado esistenziale che cannibalizza ogni cosa con un sudario fatto di tempo e materia inerte.
Sartirana contestualizza la sua personale visione nell’hinterland di una triste periferia, insinuando con un susseguirsi di dettagli anomali il sospetto che la fabbrica abbandonata poco distante dall’abitazione dei protagonisti possa essere una sorta di fantasma industriale, ancora attivo, ancora mortale. Una rappresentazione in cui l’elemento fantastico si fa metafora, indicandoci con l’ausilio della suspence la minaccia ambientale che incombe su di noi come un moderno spauracchio, monito che assume un forte connotato morale di denuncia essendo il racconto ispirato a una storia vera di morti bianche.
La memoria della polvere è sottile come l’impalpabile minaccia che ne anima le pagine, chiudendo la valida antologia con una nota di inquietudine che non può trovare risposta. Forse in questo risiede l’essenza pura dell’orrore, non nel sangue, non nei facili effetti, ma nel ricordarci la nostra precaria condizione umana.