Doc Savage, la faccia di bronzo del supereroe
Nelle edicole italiane dell’estate ’75 era possibile avvistare un oggetto misterioso, confuso tra un western all’italiana targato Bonelli o i chiacchiericci di Confidenze e Grand Hotel. L’Ufo in questione aveva un formato pocket, un nome programmatico e i magici pennelli di Karel Thole prestati alla copertina (simile a Urania anche nella classica inquadratura circolare). Dentro quel cerchio, una figura bianca dal volto scheletrico si allontanava da un ufficio svaligiato, sul cui pavimento giaceva un uomo appena colpito da una freccia.
È evidente che siamo nell’ambito della narrativa d’appendice, ma rimodernata nella veste e nel progetto grafico, più sobrio ed elegante delle enfatiche cover originali. L’edizione italiana de I teschi d’argento portava così a dodici i numeri della collana Mondadori dedicata a Doc Savage, consumando una parabola editoriale destinata a concludersi mesi dopo col numero 18, La legione degli spettri.
Una goccia nell’oceano. Appena un assaggio della serie originaria, nata nel 1933 per la newyorkese Street & Smith in una corsa durata fino al 1949 con ben 181 storie, oltretutto, un esistenza dalle molteplici incarnazioni, come dimostrano le riprese a fumetti della Marvel iniziate nel ’75 e i romanzi apocrifi usciti dal ’79 a oggi per la Bantam Books.
Per garantire una vita tanto lunga occorre un personaggio smisurato e proprio questa definizione risulta essere la più calzante per il nostro protagonista, abbastanza sopra le righe per fare da by-pass tra la categoria dei giustizieri a quella ancora acerba dei super-eroi.
L’azione vorticosa, i plot intriganti e il linguaggio diretto, visuale di Kenneth Robeson – pseudonimo collettivo dietro cui si celavano il prolifico Lester Dent ed altri autori – sono i punti di forza della popolare serie, nata in un contesto storico povero di ottimismo e affamato di miti consolatori. A queste premesse fa sponda la purissima caratura pulp del titolare, rappresentata fisicamente dalla figura atletica e abbronzata, e dal nome azzeccato che racchiude in sé i termini di un ossimoro contraddittorio e perfetto.
Il Doc, l’abbreviativo di dottore, uomo di scienza, sinonimo di “mente”, è accostato con efficacia all’esotico Savage, un aggettivo che rimanda alle ombre mutevoli della giungla inesplorata, al sole accecante della savana, all’irruenza e il dinamismo di Tarzan o di un nostrano Sandokan. Quest’ultimo paragone, non casuale, fa sì infatti che la primissima uscita italiana di Doc Savage, sia nel terzo numero della collana Classici dell’ardimento (Moderna 1936), collana ripresa dall’editore Pagani con i romanzi di Salgari.
S’intende che per reggere le aspettative generate da un nome tanto roboante, necessiti il contrappeso di un eroe di quelli massicci, costruito con materiale di prima scelta del magazzino degli archetipi della letteratura popolare. Il pedigree di Clark Savage jr., infatti, pare fatto apposta per sedurre le platee affamate di avventura. In questo senso l’epifania di un lettore italiano del ’75 non doveva essere troppo diversa da quella di un omologo americano del ’33, come testimonia lo scrittore Philip Josè Farmer all’interno dal suo libro del ’73 Doc Savage, his apocaliptic life.
Farmer, grande rimodellatore di modelli letterari, oltre a scrivere una biografia apocrifa dell’eroe, gli aveva inoltre già prestato omaggio nel romanzo del ’69 Festa di morte, ribattezzandolo per l’occasione “Doc Caliban”, e in un racconto del ’73 (dove lo farà apparire insieme al collega pulp The Shadow). Questo per dire l’incisività di una figura improbabile ed eccessiva, ma che rappresenta l’essenza stessa dell’azione, compressa meglio di un motore truccato e altrettanto rapida nel mordere la strada.
L’origine del mito di Savage è il progetto nicciano del padre scienziato di produrre un Übermensch (superuomo) imponendo al figlio una speciale preparazione atletica e intellettuale, per plasmarlo in una creatura dalla mente e dal fisico superiore (un tema che verrà poi ripreso/omaggiato da Alan Moore con il suo fumetto Tom Strong). Forte di questo bagaglio fuori dal comune e di mezzi economici più che considerevoli, Doc viene avviato alla missione di amministrare giustizia, risolvendo nel contempo complicati enigmi degni di Indiana Jones.
Nelle storie di Savage si ritrovano tutti i cliché del weird, trasversalmente rappresentati da mostri, scienziati pazzi, macchinari fantascientifici e ancora da altri classici soggetti come tribù perdute, robot, misteri archeologici e via dicendo.
La spettacolarità delle situazioni in cui l’eroe viene coinvolto sono una più pittoresca dell’altra, diventando un catalogo di spunti che hanno anticipato invenzioni letterarie e cinematografiche molto successive.
Tanto bondiano quanto imparentato a Batman, Doc ricorre spesso a un arsenale di gadget che porta con sé in un giubbotto multifunzione, nelle colluttazioni usa un tocco stordente simile a quello del vulcaniano Spock di Star Trek. Ancora, la sua base logistica è un intero grattacielo che ricorda il Baxter Building dei Fantastici 4, la Batcaverna ha il suo omologo nel finto hangar-magazzino sul fiume Hudson, infine, il suo staff di comprimari è un vero ABC degli action thriller comprendendo avvocati, chimici, ingegneri, amici per la pelle come i Moschettieri di Dumas e altrettanto pronti a tuffarsi nel pericolo. Ritorneremo sull’argomento in una sezione dedicata, dato che la molteplicità degli elementi portanti della serie sacrificano Doc Savage nello spazio di un solo articolo.
Risulta chiaro da una prima panoramica, quanto questa figura cardinale della narrativa di genere sia un impressionante catalogo di situazioni e modelli che non smettono di funzionare anche oggi. Per congedarci con un’immagine, ci diverte fantasticare un incontro impossibile da Starbucks in cui Doc, nella consueta tenuta in calzoni kaki e camicia stracciata, si vede offrire un (doveroso) caffè dal pallido, elegantissimo Agente Pendergast.
E Douglas Preston e Lincoln Child si danno di gomito, ammiccando. Ma questa è un’altra storia…