“C’è più senso religioso in una mia bestemmia, che in un milione di preghiere dette a memoria”. Intervista a Nicola Vicidomini

Non è passato nemmeno mezzo secolo da quando Cioran ha scritto che si è perduto il senso del destino e del lamento. Che “A teatro si dovrebbe, senza indugio, resuscitare il coro e, ai funerali, le prefiche”. Ma qui non è una faccenda di vita o di morte. O forse di entrambe, davanti a un gioco iniziato da nessuno sa quando, a quattr’occhi, o forse di più, con Nicola Vicidomini. Il suo teatro ha due mani, due voci, due sguardi, in una duplicità che tende l’orecchio ai rumori di fondo di quello che pretende di adagiarsi comodamente sul pentagramma, imponendo un se stesso stordito e rumoroso, e di quello che passa per rumore quando invece potrebbe essere la correzione a quell’adagio improvvido e funesto. Senza che compaia il fantasma morale, senza temere l’ombra del giudizio. Soltanto un improvviso di sensibilità. Col suo linguaggio, col suo registro. Nicola Vicidomini si consegna alla maschera, all’attore, all’ideatore. Ne fuoriesce un teatro che, come da lui stesso dichiarato in un’intervista, “affresca delle visioni incomunicabili”. Allora prendono significato i rumori, il respiro, i versacci e le parole. Una recitazione che coincide, e al tempo stesso se ne affranca, col suo pensiero. Tutto l’ipotetico fastidio che ne può scaturire, tutto lo sgarro alle raffinatezze etichettate, tutta l’insopprimibile indolenza al giogo di un raffronto con quanto ha il diritto di dichiararsi estraneo, in fondo, si uniscono a rintracciare la sua imperturbabile eleganza.

Rivista Milena ha incontrato Nicola Vicidomini per un’intervista che ha prodotto un dialogo in cui ci si rivolge a lui, che nel frattempo risponde a un voi che non si sa se sia coro o prefica.

Per gentile concessione di Renata Marzeda

Studiosi e critici nel corso dei secoli hanno assegnato numerosi generi al teatro. Ipotizzando che nessuno di questi abbia chiesto l’autorizzazione al teatro stesso, Nicola Vicidomini se ne dovesse scegliere uno lo farebbe rifiutandoli tutti?

Non rifiutandone nessuno, invece. Me li accollo tutti, i generi, soprattutto quelli che non esistono e che non saranno mai neppure immaginati. Il dramma cardiocrepuscolare, ad esempio… Il teatro è un rito fuori dal genere, pura degenerazione. L’insieme di categorie atte a sintetizzare la natura di un’opera – prima ancora di esservici accostati – o, più generalmente, la volontà schematica di imprimere un nome e una funzione precisa, unilaterale, alle cose, muove da quella fatiscente, disonesta volontà – alla base della stucchevole ragione illuministica – di proiettare un senso sul caos dell’esistente nel tessere costantemente una narrazione comunitaria, l‘impero dell‘”io”. Qualsivoglia paletto o vincolo di genere sono mero marketing della pucchiacca e/o televendita di una batteria di pentole pubblicizzate male su una rete locale da un ex vip sovrappeso in giacca a righe, utile a tranquillizzare coloro i quali del mistero demoniaco a monte del teatro non si assumerebbero neppure un briciolo, né avrebbero mai la forza di riconoscerlo, quel mistero. Come faremmo mai a dichiarare davanti a moglie, figli, parenti – magari nel corso di una cena – di quella volta quando in sosta su una strada sterrata, ci ha fatto molto piacere che quella capra dallo sguardo sincero ci ha sorriso, e che in quell’istante ci sentivamo invasi da un senso ancestrale, divino di onnipotenza?  Se vuoi una risposta più sprucida, facile facile, Vicidomini fa “cummedia di custume senza custume”, gira “suvente” per strada nudo e spesso fa camera di sicurezza. Non mi chiedere chi sia Vicidomini, perché non lo so. 

Cosimo Cinieri, parlando del teatro di Vicidomini, ha affermato che nella parte del cervello che non usiamo, che poi è la parte più vasta, c’è lo Scapezzo. Scapezzo la conosce? Sta imparando a conoscerla? Ne è fuggito dopo averla conosciuta? Come la percepisci?

Per gentile concessione di Cristina Canali

Mi preme puntualizzare che Scapezzo era per me solo il titolo dello spettacolo. Per mia meraviglia il pubblico, all’unanimità e senza riserve, ha deciso autonomamente, in tutta naturalezza, e con una sicurezza particolare, quasi inquietante, di attribuire alla mia maschera questo nome. Nessuno di essi ha mai avuto dubbi a riguardo. Per strada, a Roma, mi chiamano “Scapezzo”: “A ‘n vedi c’è Scapezzo!”. Ora ho la sensazione che quel nome esistesse ancor prima di me. Tuttavia, non avrei mai saputo, né voluto dare un’anagrafe a quella entità. Pochi ricordano la televisione che ho fatto, ma tutti ripetono a memoria passaggi interi dei miei spettacoli.  Scapezzo mi è sfuggito di mano, come Fantozzi è sfuggito di mano al grande vecchio, Paolo. Anche lì, il pubblico ha attribuito non un titolo, ma il nome di un personaggio letterario e cinematografico alla maschera che, in tutte le sue declinazioni, era fondamentalmente solo Villaggio. Tornando alla domanda, la risposta è nella stessa affermazione di Cosimo: “Scapezzo è quella parte del cervello che non usiamo”. Viva Cinieri, tra i più grandi attori di tutti i tempi.

Oggi pare che la più grande necessità per chi si occupa di letteratura, di teatro, di cinema e di arte sia quella di distinguersi, a tutti i costi. Qual è la più importante preoccupazione di Vicidomini davanti al teatro? Davanti al suo teatro?

Riempire sempre  la sala. Pagare le bollette.

Come si distingue chi vuole e sa rappresentare l’assurdo da chi invece ne è vittima?

Il primo potrebbe essere un grande artista, l’altro ristagnerebbe sicuramente nel putridume del suo quotidiano, nell’olezzo della famiglia e nella presuntuosa asfissia delle proprie quattro mura domestiche. I due soggetti non possono essere posti sullo stesso piano come stai facendo.  Troppo accomodante. Troppa presunzione ci sarebbe. E’ come paragonare Dio a Silvio Pellico prima della galera. 

In un’intervista hai definito il pubblico “parte integrante dello spettacolo”. Che pubblico vedi in questo momento?

Per gentile concessione di Renata Marzeda

Se parli  di quello che affolla i miei spettacoli, vedo un pubblico sempre più vasto. Se parli del pubblico in generale intravedo due fazioni: una senza speranza alcuna, cadaverica, e un’altra attiva, partecipe, peraltro in continua crescita. Quest’ultima non pone limiti alla meraviglia e non si accontenta di quello che per troppi lunghi anni ha passato il convento dell’omologazione linguistica, della globalizzazione dell’immaginario e delle immagini.  

 

Di recente è venuta fuori una polemica sul fatto che una parte dei cattolici si siano scandalizzati additandoti come dissacrante, come se il tuo teatro mancasse di rispetto alla religione. Lo scandalo in origine era la trappola. In questo caso chi ci è cascato?

E’ improprio parlare di “parte dei cattolici”. Si trattava di un fanatico che in diretta “mundiale” dalla roccaforte delle proprie quattro mura domestiche ha coinvolto un’associazione cattolica e, successivamente, convinto un prete esorcista siculo a telefonarmi.  Ho avuto la prontezza di andare in diretta sulla mia pagina nel momento in cui è arrivata la chiamata. Mi sono molto divertito e continuerò a farlo. Non credo di aver scandalizzato nessuno. Piuttosto loro hanno scandalizzato me. Sono ancora incredulo. C’è più senso religioso in una mia bestemmia, in una mia visione satanica, che in un milione di preghiere mnemoniche, nella meccanicità rituale e desertica senza necessità, tipica di una religiosità occidentale andata a male, scaduta da troppo tempo. Tutta la comicità che si rispetti è un autentico attentato all’uomo, al senso edificato dalla razza umana al suo retaggio strutturale, alla sua morale, alle relative narrazioni, comunitarie e personali, una péreta alla storia. Ecco il Fauno, visione arcaica, indecente e oscena, con gambe caprine, zoccoli, coda e pesce da fuori a ribadire il fallimento che siamo. Sentire il disturbo di sé sul palco e fuori dal palco è determinante. Odiarsi a tal punto da dissolversi. La comicità non è un riflesso del sociale, è manifestazione indicibile, dionisiaca e amorale, che sconquassa l’ordine proiettato dall’uomo sulle cose. Non mi stancherò mai di ripeterlo. Chi parla di giustizia, chi s’aggrappa a un’etica comunitaria (avendo come obiettivo la risata) è solo un “individuo” che cerca l’affermazione del proprio ego, assai distante dalla dichiarazione di una poetica e di un mondo. Il comico è una delle cose più lontane dalla logica e dal valore dei numeri. Dove nasce la comicità? Dal corto circuito tra quel caos che è la natura e il senso che la razza umana gli ha arbitrariamente impresso. Il Satiro Vicidomini fa il gioco del caos. Ecco perché quando vi sorprendete a ridere ai miei spettacoli non capite il motivo, quasi meravigliandovi di voi stessi. Alcuni di voi me lo vengono a dire. In quel momento avete inconsciamente demolito l’io e tutta la storia. E tornate a respirare. In un istante divino.

Per gentile concessione di Renata Marzeda

Avevamo inizialmente citato Emil Cioran. Se Nicola Vicidomini ci consente di accostarlo soltanto per un momento alla figura dell’umorista, allora a tal proposito proprio Cioran nello Squartamento si è espresso con chiarezza, sottraendo soltanto l’umorista dalla possibilità di errore, perché questi “ha scoperto quasi per gioco la vacuità di tutto ciò che è serio e di tutto ciò che è frivolo”.

Foto di copertina per gentile concessione di Cristina Canali

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