Edipo senza complesso e la storia di un desiderio mancato – Seconda parte
di Marco Antonio D’Aiutolo
“Mi rinfacciasti dalla tua bocca uccisioni e nozze e sventure,
che io misero subii non volendo: così piacque agli
dèi, forse irati da tempo contro la mia stirpe.”
Le parole appena citate sono una perfetta sintesi della storia di Edipo, il personaggio controverso del famoso mito greco, oggetto dei miei due articoli. Sono anche le parole che Edipo stesso pronuncia in sua difesa: accusato di parricidio e incesto. E, nell’articolo precedente, ho esposto nel dettaglio tutta la serie di eventi che, mediante azioni, maledizioni e oracoli, umani e divini, conducono Edipo a quei capi di imputazione e che egli rifiuta, proclamandosi innocente.
“Spiegami, dunque: se dagli oracoli venne vaticinio a mio padre che sarebbe morto per mano dei figli, come potresti giustamente accusare me, che ancora non ero seminato dal padre, né concepito dalla madre, ma non ero neppure generato?”
Dunque Edipo ha subito un destino inevitabile, che ha origine prima ancora della sua esistenza. È effettivamente innocente, come dice. Ed è su questa convinzione che si basa l’idea di un Edipo senza complesso, come anche e in generale la proposta lacaniana della “struttura del desiderio”, in base alla quale quello di Edipo è un desiderio mancato. Ma andiamo per ordine.
Nel suo Etica del Reale. Kant, Lacan, la filosofa slovena Alenka Zuprančič discute il rapporto tra etica e tragedia in psicanalisi e si chiede: “Perché è necessario coordinare l’esperienza psicanalitica con l’esperienza della tragedia?” Non è tanto un tentativo di “poeticizzazione della teoria psicoanalitica”, in opposizione al suo formalismo matematico-simbolico. “Al contrario, si tratta di un primo sforzo volto alla ‘matematizzazione’ e alla formalizzazione di questa esperienza.” La tragedia articola qualcosa che sfugge alla definizione scientifica (ordinaria), non trascrivibile direttamente nel “Simbolico”, ma visibile in esso solo mediante effetti e impasses. Come scrive Jacques Lacan: nel mito, “le trasformazioni si operano secondo certe regole” che “dimostrano lo stesso genere di fecondità della matematica.” (Il seminario. Libro VIII. Il transfert. 1960-1961).
Lo psicanalista francese quindi distingue tra tragedia classica e tragedia moderna e contemporanea. La prima è prodotta da un “fato” rispetto al quale non si può fare nulla, ci obbliga solo ad accettarlo così com’è. Secondo l’Hegel di Lezioni di estetica, la forza dei grandi caratteri tragici dell’antichità consiste nel fatto che non hanno scelta. Ma non per questo i suoi eroi sostengono “di essere innocenti dei propri atti”. Anzi, per loro “è un onore essere colpevoli”. Invece, per la modernità, colpa e debito ci possono essere tolti, per cui Lacan parla di “radicale ‘destituzione’ del soggetto”. A suo avviso, tale differenza non è una tesi storico-letteraria. Ha più a che fare con una rottura nella storia del desiderio, connessa al ruolo del sapere nell’azione umana. È nella struttura di desiderio-sapere dischiusa nella tragedia che va vista l’interpretazione psicoanalitica del mito di Edipo. Esso è posto in relazione a in contrasto con l’Hamlet di Shakespeare. Mentre in quest’ultimo “l’Altro (il Padre) sa (di essere morto) e, quel che più conta, lascia che il soggetto (Amleto) sappia che lui sa”, in Edipo Re invece “vi è completa ignoranza (l’assenza di conoscenza)”: egli ignora che l’uomo che uccide sia il padre e la donna con cui giace la madre. Solo alla fine scopre il suo destino.
Ora, la storia di Edipo potrebbe essere considerata come l’illustrazione di un processo, mediante il quale il soggetto accetta quel destino contingente come qualcosa di necessario, riconoscendo in esso il senso della propria esistenza. Egli prende su di sé una colpa irriducibile e così interiorizza e dà senso a quel destino. Pur non essendo colpevole (a motivo di questa assenza di conoscenza), Edipo assume eroicamente la responsabilità dei suoi crimini. Per cui figurerebbe “come il ‘prototipo’ della condizione esistenziale in cui siamo nati colpevoli, come portatori di un inestinguibile debito simbolico – nati, cioè, in una costellazione simbolica pre-esistente, nella quale dobbiamo riconoscere il significato del nostro essere”. È la vera origine della tragedia!
Per Zuprančič tuttavia vi è ben poco di questa lettura nella tragedia di Sofocle. Il motivo dipende proprio da quell’assenza di sapere, rilevante anche per un’interpretazione anti-freudiana. Ne parla Lacan ne Il seminario. Libro VII. L’etica della psicanalisi. 1959-1960: “Se Edipo è un uomo completo, se Edipo non ha complesso di Edipo, è perché nella sua storia, non c’è padre affatto.” Come abbiamo visto, Lao viene meno al suo ruolo (simbolico) di figura paterna. E sappiamo il perché! Edipo, lungo la strada che conduce a Tebe, non incontra suo padre, ma uno straniero, un aggressore. Ed è per questo che si difende dalle accuse “con un argomento degno di un abile avvocato: ponetevi una semplice domanda. Se in questo momento vi si avvicinasse uno straniero che abbia l’aria di volervi attaccare, voi vi difendereste, o gli chiedereste se, per caso, sia vostro padre?” (Zuprančič). È il punto rivelatore di tutta la tragedia di Edipo: Non ho uccido mio padre! che riporta alla questione della sua colpa e all’ambiguità del suo lamento: Se solo fossi colpevole! Ma gli è stato rubato questo onore, questo posto nel simbolico (che gli spettava di diritto)! Dopo tutte le sofferenze che ha subito, non è neanche colpevole. Di fatto, ciò sottolinea il nonsenso del suo destino, più che il suo Senso o il suo Significato. “Non mi lasciate neanche la possibilità di partecipare alle cose come soggetto (di desiderio).”
Che cosa significa quest’espressione? La mancanza di colpa di Edipo è atipica anche per gli altri eroi classici. Infatti, sebbene la tragedia greca avesse come orizzonte la subordinazione degli uomini alla potenza divina, essa era nondimeno capace di puntare il dito sul nodo della colpa soggettiva. Ad esempio, l’Agamenonne di Eschilo: egli sacrifica la figlia spinto da necessità (ex anankes). Non può non obbedire all’ordine di Artemide, comunicatogli dall’indovino Calcante, né può disertare l’alleanza bellica, il cui scopo – la distruzione di Troia – è ordinato da Zeus. È volere degli dèi che parta per Troia e che sacrifichi sua figlia affinché i venti lo facciano tornare. Egli uccide sua figlia, possiamo dire, “per necessità”. Tuttavia, è considerato assolutamente responsabile di quest’omicidio, per il quale pagherà. E il motivo dipende da quanto Lacan osserva: “Ciò che Agamennone è costretto a fare sotto il gioco di Ananke è anche ciò che desidera di tutto cuore, se tale è il prezzo per essere vincitore.”
In questo rapporto tra desiderio e colpa, il soggetto diviene colpevole nel momento in cui “il desiderio dell’Altro” diventa il suo più intimo desiderio. O meglio, nel momento in cui il soggetto si avvantaggia di ciò che è “oggettivamente necessario” e vi trova il suo “surplus di godimento”. “Da questa prospettiva – scrive Zuprančič –, accade che è il desiderio (del soggetto) a supportare la necessità oggettiva, il suo ‘destino’”. Lo stesso accade ad Amleto quando si assume (desidera assumersi) le colpe del padre morto, senza riscatto (ma su questo vi ritornerò in articoli successivi). Edipo invece non è colpevole perché è “deprivato del suo desiderio” (che solo lo avrebbe reso tale). In cambio è stato consegnato all’ordine sociale (al trono e a Giocasta), ossia a qualcun altro: “un dono, che io sventurato – dice Edipo –, dopo averla soccorsa mai avrei dovuto ricevere dalla città.”
I passaggi sono carichi di significati e aprono a questioni non irrilevanti, che, purtroppo, è impossibile analizzare in questa sede per l’economia del discorso. Ma è interessante osservare che sebbene Edipo sia nato in una situazione dove il corso del suo destino è determinato in anticipo, egli fa qualunque cosa per evitare questo corso e la maledizione che lo accompagna. E sebbene alla fine, realizzi la profezia, cercando di fuggirla, niente giustifica l’interpretazione di un Edipo che assume il suo destino, riconciliandosi eroicamente. Quel destino egli non lo ha desiderato, affatto, né lo desidererà in futuro. Per questo, dopo aver scoperto ciò che gli è accaduto, si acceca, che non è un atto di autopunizione, bensì di disconoscimento. “Invece di prendere su di sé i suoi debiti simbolici e ‘saldarli’ con la propria morte – osserva ancora Zuprančič –, Edipo inizia a cavillare, a protestare, e anche a mercanteggiare: egli trova il prezzo eccessivo; è vittima di un’ingiustizia”.
Edipo è l’antieroe per eccellenza! Se scegliesse il suicidio, salderebbe quei debiti e riporterebbe la tragedia a una pura articolazione di significati. Ma egli, piuttosto di annullare la sua esistenza, sceglie di continuarla e lo fa ora da reietto cieco e senza direzione, che consiste nell’essere qualcosa “di rigettato dal significante, lo ‘sputo’ del significante”. Siamo vicini alla formula lacaniana di “attraversamento del fantasma – identificazione del sintomo”. Edipo non si identifica con il suo destino, ma “con quella cosa in lui che ha reso possibile la realizzazione del suo destino”: la cecità (che è appunto assenza di sapere e mancanza, deprivazione del desiderio). Ed è questo, a mio avviso, a rendere Edipo non solo senza complesso (innocente), ma, in quanto si rende reietto e sputo di un “sistema simbolico”, una vera e propria esistenza affrancata.
Immagine di copertina: Enrico Prampolini, Bozzetto di scena da Edipo re – Tempera su cartoncino
dal sito www.farsettiarte.it