Addio a Ermanno Olmi, maestro che ci ha insegnato a restare umani
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non valgono un caffè con un amico
Centochiodi di Ermanno Olmi
Volendo azzardare un tentativo di ricordare un cineasta come Ermanno Olmi il rischio di cadere nella forzatura retorica è dietro l’angolo, difficile se non impossibile da arginare. Ma questa volta è un rischio che mi sento di correre perché l’autore bergamasco è stato davvero un monumento del cinema italiano, una di quelle persone che, pure se non le conosci, le senti come di famiglia. Olmi per me rappresentava un po’ una sorta di zio buono, quella figura che molti di noi hanno conosciuto nell’infanzia, il parente prossimo che, quando sei bambino, ti porta un dolce e si informa dei tuoi progressi, poi ti accarezza la testa e ti invita a comportarti sempre come un vero essere umano. Vedete, sono uno di voi è stato il titolo del suo ultimo, bellissimo film, che il regista ha dedicato alla figura del cardinale Carlo Maria Martini, ed è una frase che potrebbe benissimo applicarsi a lui. Cattolico praticante, Olmi non faceva mai la predica. Anzi. Nei suoi film, lo sguardo è sempre stato rivolto prevalentemente all’umano, vicino alle debolezze dei suoi simili, alle loro fragilità, che senz’altro riconosceva anche come sue. Era il dio, al contrario, ad essere talvolta messo in sordina, costretto a cedere il passo. Basti pensare alla sequenza dello splendido Il mestiere delle armi (uno dei suoi esiti più alti) quando i soldati bruciano un Cristo di legno per accendere un bivacco e potersi scaldare, o all’indimenticabile incipit di Centochiodi quando il filosofo della religione, interpretato da un inedito Raz Degan, crocifigge alcuni incunaboli sul pavimento della biblioteca e corre via per “andare a vivere con lentezza e a entrare in sintonia con la natura”, come dichiarerà il regista nel corso di un’intervista. La natura, d’altronde, era un altro grande amore di Olmi che ebbe a dichiarare: “Potrei sopravvivere alla scomparsa di tutte le cattedrali del mondo, non potrei mai sopravvivere alla scomparsa del bosco che vedo ogni mattina dalla mia finestra“.
Autore di numerosi documentari, pur avendo affrontato figure di alto profilo storico come Carlo Maria Martini e papa Giovanni XXIII (cui dedicò il film di finzione E venne un uomo), Ermanno Olmi aveva una straordinaria passione per le vicende più minute, per l’umanità più semplice. Nel bell’esordio Il tempo si è fermato metteva al centro l’amicizia tra un giovane studente ed il solitario guardiano di una diga invernale (un’altra amicizia sui generis sarà raccontata dal regista qualche anno dopo nel film TV I recuperanti), mentre nel bellissimo Il posto metteva in scena, con precisione e mirabile capacità di sintesi, l’Italia del boom economico attraverso la vicenda del giovane Domenico che approda a Milano, città vista come luogo della definitiva realizzazione sociale, da raggiungere attraverso l’ottenimento dell’agognato posto fisso. Diversamente dall’angolazione scelta, ad esempio, da Pier Paolo Pasolini, che vedeva in quest’ansia di realizzazione i pericoli dell’omologazione, Olmi guardava il suo giovane protagonista con pietà ed empatia, pur osservando implacabilmente il meccanismo che stava per portarlo verso la vita mediocre che lo aspettava in seguito al processo di integrazione. I primi esperimenti di finzione di Olmi sono piccole perle preziose, buone come il pane di casa, talvolta sottostimate nell’Italia cinematografica dominata dalle opere sontuose di Federico Fellini e Luchino Visconti, e dalle lezioni sull’incomunicabilità del cinema di Michelangelo Antonioni, ma capaci di restituire perfettamente un’epoca.
In fondo, in questi film c’è già tutto Olmi sebbene il successo internazionale arriverà solo nel 1978 con L’albero degli zoccoli, fluviale sguardo sul mondo contadino, narrato in maniera asciutta e precisa, in cui il coinvolgimento emotivo riesce a mantenersi libero da sentimentalismi. La massima affermazione coincide anche con il periodo più buio della carriera di Olmi, dovuto ad una malattia, la sindrome di Guillain-Barré, una pericolosa nevrite che potrebbe avere effetti invalidanti a causa di una paralisi progressiva che lo tiene lontano dai set per alcuni anni. Nel decennio successivo al capolavoro vincitore della Palma d’oro al Festival di Cannes, infatti, Olmi realizzerà un solo film, l’affascinante Camminacammina, allegoria della vicenda dei Re Magi per poi ritornare con il grottesco Lunga vita alla signora, premiato a Venezia con il Leone d’Argento.
Dando prova di un eclettismo che fa di lui un autore quasi inafferrabile, nella seconda parte della sua carriera Olmi passa con agilità dall’adattamento di Joseph Roth La leggenda del santo bevitore, con un Rutger Hauer raramente così intenso (il film si aggiudica un meritatissimo Leone d’oro a Venezia), all’ode alla magia della natura de Il segreto del bosco vecchio, con Paolo Villaggio in una delle rare parentesi drammatiche della sua carriera, dal film televisivo Genesi: la creazione e il diluvio al film storico in costume Il mestiere delle armi sugli ultimi giorni di vita del condottiero Giovanni Delle Bande Nere, al secolo Ludovico di Giovanni De’ Medici, dallo spiazzante e bellissimo Cantando dietro i paraventi, ambientato nella Cina imperiale, e interpretato addirittura da un memorabile Bud Spencer ad una sorta di dittico anticlericale costituito da Centochiodi e Il villaggio di cartone (Olmi ha scritto anche Lettera a una Chiesa che ha dimenticato Gesù, appassionata invettiva di “aspirante cristiano” come si definiva). Il suo ultimo film di finzione sarà torneranno i prati (da scrivere tutto in minuscolo), ambientato nel 1917 sugli altipiani innevati del fronte di combattimento di Nord-est. Accolto con eccessivo sussiego e uscito a dir poco in sordina, il film è un pregevole resoconto antimilitarista della vita dei soldati in trincea, perfetta rappresentazione delle idee di un uomo che una volta ebbe a dichiarare che “Sui monumenti che ancora oggi ritraggono gli alti comandanti, bisognerebbe scrivere sotto: ‘criminale di guerra‘”. Non potrà che mancarci un uomo della statura umana e artistica di Ermanno Olmi, dal quale non era mai lecito attendersi niente che non fosse netto, pulito, schietto, qualità proprie di colui che respingeva le idee codificate ma sapeva anche rifuggire l’ambiguità perché sapeva che le parole andavano usate sempre con parsimonia e con attenzione per evitare che esse ci complicassero la vita. Buon viaggio, maestro buono.
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