Cannes 2018, la politica sbarca alla Croisette
In un Concorso ed un Festival che per ora sembrano ancora in una fase di warm-up (d’altronde, i nomi più attesi sono ancora ai nastri di partenza e verranno presentati soltanto nei prossimi giorni), il programma di ieri si è caratterizzato per i suoi forti connotati politici, sia in riferimento ai contenuti veicolati da alcuni film, sia in relazione alle vicende personali di alcuni registi. Nella sezione “Un Certain Regard” abbiamo potuto apprezzare Donbass di Sergei Loznitsa, opera potente ambientata nella regione del titolo, situata nell’est dell’Ucraina. Attraverso alcuni episodi in massima parte slegati tra loro, il film mette in scena la feroce guerra ancora in corso in quel territorio, mescolando il conflitto armato con saccheggi e violenze perpetrate da gang che agiscono ormai senza ch vi sai alcun controllo. Si passa dagli espropri operati dai separatisti alle stragi dei nazionalisti contro coloro che sono accusati di propaganda a favore del nemico, dalla descrizione di una corruzione dilagante alla messinscena, con toni grotteschi, di un matrimonio laico. Lo sguardo del regista, già autore del documentario su Auschwitz Austerlitz e in Concorso a Cannes lo scorso anno con l’acido A Gentle Creature, si mostra lucido e implacabile (talvolta calcando la mano in maniera forse un po’ eccessiva), e osserva con disprezzo l’umanità rappresentata dalla quale, a suo avviso, nessuno merita di essere salvato. Per questa ragione, sebbene sia sino a questo momento l’opera migliore nella quale ci siamo imbattuti, Donbass lascia alcune perplessità di carattere etico e appare viziato da un fastidioso eccesso di nazionalismo.
Sempre nella stessa sezione, ieri è stato presentato alla stampa anche Rafiki (Friend), esordio della regista keniota Wanuri Kahiu. Il film ruota attorno all’amore omosessuale di due ragazze, i cui padri sono candidati alle elezioni e, a causa del contenuto scabroso, ne è stata proibita la visione in patria. Per quanto eccessivamente naif, pieno di tutti i difetti delle opere prime che ne fanno un lavoro artisiticamente poco rilevante, Rafiki mantiene una certa simpatia e amabilità in virtù del tema affrontato, sebbene (e qui si aprirebbe una lunga controversia) bisogna chiedersi quanto un Festival di grosse dimensioni debba guardare ai contenuti (rischiando di cadere, in questo modo, in un eccesso di paternalismo) e quanto alla forma, agli esiti artistici.
Andando poi al Concorso, dopo il modesto film d’apertura di Farhadi, stamattina è stato mostrato alla stampa Summer del russo Kirill Serebrennikov. Il regista si trova al momento in stato d’arresto, accusato di truffa e frode, colpevole – secondo il governo di Putin – di avere distolto circa un milione di euro di fondi governativi destinati al suo teatro, il Gogol Center. Nonostante le richieste del Festival, Serebrennikov non ha ottenuto dal suo Paese il permesso di recarsi a Cannes per prendere parte al Festival. Inevitabile, quindi, durante la proiezione ufficiale di ieri sera, l’esposizione di cartelli che ne chiedevano la liberazione. Il regista rischia una condanna a dieci anni. Illuminato da uno sfavillante bianco e nero, Summer è ambientato nella Leningrado degli anni ’80, ai tempi della Perestrojka, dove i dischi provenienti dai Paesi del “nemico occidentale”, come ad esempio i vinili di David Bowie e Lou Reed, si scambiano di contrabbando, e in Russia inizia ad emergere sulla scena la musica rock. Nella descrizione del contesto politico, invero piuttosto blanda, vediamo innestarsi un triangolo amoroso che coinvolge il musicista Mike, la sua bellissma moglie Natacha e il giovane Viktor Tsoi, grande ammiratore di Mike. Per quanto accolto molto favorevolmente alla proiezione stampa, Summer è un racconto sostanzialmente piatto ed anemico, sebbene girato con estrema cura e non privo di un certo fascino visivo. Il film, ad avviso di chi scrive, non riesce a restituire il complicato clima politico di quegli anni cruciali, e anche la storia d’amore a tre risulta poco coinvolgente, priva di qualsiasi pathos, raccontata senza una reale capacità di penetrare le psicologie dei personaggi. I personaggi non stabiliscono mai un vero contatto tra loro, quasi che il regista applicasse ai suoi connazionali il famoso motto di spirito riservato agli inglesi: “Niente sesso, siamo russi”.
Infine, tra le opere in Concorso, ieri è stata la volta anche dell’unica opera prima in corsa per la Palma d’oro, Yomeddine, esordio del regista egiziano A.B. Shawky. Il film racconta la vicenda di Beshay, lebbroso da poco guarito, e del viaggio che questi, dopo la dipartita della moglie, decide di intraprendere alla ricerca della sua famiglia, che lo aveva abbandonato da piccolo. Lo accompagna Obama, un bambino orfano che Beshay ha preso sotto la sua ala. I due si muovono, a bordo di un calesse, nelle zone più desolate del Paese ed entrano in contatto con il Mondo, con i suoi mali, i suoi istanti di grazia, nella speranza di incontrare un po’ di calore e umanità. Purtroppo il film di Shawky, che sembra inizialmente strizzare l’occhio ad una narrazione di stampo neorealista, cerca ben presto rifugio nella favola, preferendo mitigare ogni asperità, smussare ogni spigolo, blandendo lo spettatore con un poeticismo abbastanza fiacco e mettendo la sordina a qualsiasi vero tentativo di denuncia.
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