Cannes 2018, il libro di immagini di Jean-Luc Godard
“Ricordi ancora in che modo conducevamo il nostro pensiero? La maggior parte delle volte partivamo da un sogno… Ci domandavamo come potessero sorgere in noi, nell’oscurità totale, colori di tale intensità, come potessimo dire cose grandi, importanti, sorprendenti, cose giuste e profonde, per mezzo di una voce dolce e debole. Si direbbe un brutto sogno, scritto in una notte di tempesta. Paradisi perduti sotto gli occhi dell’Occidente. La guerra è qui…“
Quella che abbiamo riportato, chiusa tra virgolette, è (sarebbe) la sinossi di Le Livre d’image, l’ultimo parto creativo del maestro Jean-Luc Godard, 87 anni compiuti lo scorso 3 dicembre. Oggi è il suo giorno qui alla Croisette, dove il regista naturalmente non si è fatto vivo, esattamente come quattro anni fa, quando venne presentato in Concorso il suo splendido Adieu au langage, e lui disertò il Festival definendolo “un congresso di dentisti”. La sua prima apparizione a Cannes è datata 1962 e avvenne in una maniera singolare: quell’anno, infatti, era in competizione a Cannes Cléo dalle 5 alle 7 di Agnès Varda, un film nel quale era inserito un cortometraggio burlesco in bianco e nero, omaggio al cinema muto, girato da Godard e intitolato Les fiancés du pont MacDonald, interpretato dal regista stesso con la compagna d’allora, l’attrice svedese Anna Karina. Sono passati ormai cinquantasei anni da allora, Godard è stato un rivoluzionario della settima arte, il suo nome è ormai un monumento e sul manifesto dell’edizione di quest’anno campeggia un’immagine de Il bandito delle 11 (1965), con Anna Karina e Jean-Paul Belmondo che si scambiano un bacio sporgendo le teste dai finestrini abbassati delle rispettive auto in corsa.
Jean-Luc Godard, si diceva, non è qui: stavolta però non ha lanciato strali o improperi contro le maestranze del Festival, preferendo lasciare la parola unicamente alle immagini del suo film. Prima della proiezione, il suo nome è stato evocato e invocato, c’è chi ha gridato: “Godard forevèr!”, con l’accento sulla seconda “e” appunto, alla francese, ma in modo che tutti potessero capire. Poi lo schermo si è oscurato, un “bip” ha annunciato l’inizio della proiezione (un “bip” che era già il film), quel rumore che si sente talvolta prima dell’inizio delle trasmissioni, emesso dai nostri televisori. Lo schermo prende forma, compare una mano con un dito che indica in alto, forse un primo sberleffo allo spettatore che si troverà inevitabilmente spiazzato di fronte a questo oggetto filmico coltissimo, geniale ma spesso inafferrabile, certamente narcisistico, avviso a chi si limiterà a guardare il dito anziché la luna. Una mano è fatta di cinque dita, lo stesso numero di capitoli in cui è diviso Le Livre d’image. Diversamente da Adieu au langage, Godard non sperimenta con la stereoscopia, non mette alcun attore in scena. Se nel film del 2014, Premio della Giuria ex-aequo con Mommy di Xavier Dolan, davanti alla macchina da presa si muovevano e agivano un uomo, una donna ed un cane, qui siamo dalle parti delle Histoire(s) du cinéma, magnifico omaggio alla settima arte realizzato da Godard nel 1988. Il regista ricrea una materia pittorica utilizzando fonti e formati diversi, lavora sulle immagini deformandole, ricolorandole, divertendosi a sgranarle, modificando di continuo il quadro, come spesso si fa oggi con i televisori più evoluti. Lo stesso accade con il testo, anch’esso ricchissimo e variegato: le parole lasciano talvolta il posto a balbettii confusi, poi si interrompono, vengono ricoperte da suoni e rumori, soliloqui e dialoghi sono mozzati per sempre.
Naturalmente è il cinematografo a dominare la scena, specie nei primi capitoli, sia attraverso le innumerevoli citazioni filmiche e sequenze inserite con maestria, sia mediante la visualizzazione degli strumenti “fisici” del cinema: la macchina da presa che talvolta si sovrappone all’immagine della canna di un fucile, la vecchia pellicola con le sue perforazioni, la sua decomposizione, lo srotolamento e il riavvolgimento del nastro. La guerra, la violenza, la morte sembrano dominare i primi capitoli: immagini di onde lasciano presto il posto a boati, fiamme, bombardamenti, eserciti, uno spettacolo roboante, una sinfonia nella quale ogni tentativo di decodifica è votato fatalmente allo scacco: meglio abbandonarsi al flusso, spostare l’occhio continuamente verso la luna, fare finta che il dito non ci sia, evitare di lasciarsi irretire dalla ricerca di “messaggi” o “significati”, rendere autonoma la retina affinché le immagini possano fissarsi su di essa. Il flusso sinfonico nel quale siamo gettati, per quanto rapsodico, sembra tuttavia solo apparentemente scomposto: frutto di una mente sempre attiva, fertile e lucidissima, Le Livre d’image è un’opera selvaggia, che non a caso utilizza spesso immagini tratte dai fauves, e il cui obiettivo sembra quello di osservare con raccapriccio il Male e la violenza del mondo, la guerra infinita, il terrorismo (definito, ironicamente, con un richiamo a Thomas De Quincey, una delle belle arti), la Storia. Diversamente da Karl Marx che riteneva la Storia un continuo alternarsi di tragedia e farsa, nel primo capitolo intitolato “Remakes”, Godard mostra come essa si ripeta invece sempre come tragedia. La mancanza di morale dell’uomo fa rima con i crimini di Stato (e la parola “rimakes” si trasforma in rim(ak)es, cioè “rima”, “rime”), l’umanità scivola verso l’autodistruzione. Per questa ragione, il regista è costretto a citare Joseph De Maistre, principe del pensiero reazionario e controrivoluzionario, e le sue Serate di Pietroburgo, dove il politico e saggista francese fa un elogio del militare ed esalta la guerra.
In Le Livre d’image Godard mostra inoltre come storia e cinefilia vadano a braccetto e la prima viene raccontata attraverso la seconda, che però attinge dall’orrore della prima. Per questo vediamo immagini tratte dall’attualità, con bombardamenti che distruggono foreste mentre la voce fuori campo dello stesso regista elenca i principali libri sacri, tra cui la Bibbia. Apocalisse, now. E poi ancora citazioni da La donna che visse due volte di Alfred Hitchcock, Lucky Star di Frank Borzage, Ruby fiore selvaggio di King Vidor, Il fiore delle mille e una notte di Pier Paolo Pasolini. Proprio il film del regista italiano prelude alla rappresentazione, nell’ultima parte, di un mondo arabo felice e pacificato, che mescola tramonti con barche che brillano nel calmo mare, descrizioni degli angoli esotici del Maghreb e del deserto sahariano che lasciano poi il posto al commento di Bombes de sable dello scrittore francese Albert Cosséry, favola sarcastica, per certi versi profetica, che schernisce la cupidigia degli uomini e assume, agli occhi di Godard, una particolare importanza in relazione a quanto avvenuto negli ultimi decenni con l’assalto ai Paesi del Golfo da parte delle nazioni occidentali.
Difficile dire (e davvero poco importa) se un oggetto così unico e inclassificabile come Le Livre d’image possa ambire a qualche premio (tra l’altro, sebbene Godard non sia mai riuscito ad aggiudicarsi la Palma d’oro, facciamo fatica a pensare che la cosa sia in cima alle sue preoccupazioni). Quello che interessa sottolineare è l’immutata grandezza e l’incredibile longevità di un autore che, senza staccarsi dai suoi schemi consueti, riesce a gettare una luce sull’attualità senza mai piegarsi di fronte ad essa, operando anzi una sua continua rielaborazione attraverso gli strumenti della settima arte. Perché anche il cinema, come la guerra, è sempre tra noi.
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Le Livre d’Image è visibile in streaming su Rai Play al seguente link: Le Livre d’Image