Cannes 2018, in Concorso “Lazzaro felice” di Alice Rohrwacher
A Cannes è stato il giorno di Lazzaro felice di Alice Rohrwacher, primo dei due film italiani in Concorso qui alla Croisette. L’altro film, Dogman di Matteo Garrone, verrà presentato alla stampa il 17 maggio, giorno che cooinciderà con la sua uscita nelle sale italiane. Il film della regista di Corpo celeste e Le meraviglie, vincitore del Grand Prix nel 2014, ruota attorno al giovane Lazzaro, contadino totalmente buono, al punto di essere considerato stupido, e della sua amicizia con Tancredi, figlio della marchesa De Luna, che sfrutta il ragazzo e i membri della comunità rurale facendo loro lavorare le sue terre con l’antico metodo della mezzadria ma senza riconoscere loro il giusto compenso, anzi sfruttandoli senza pagarli. Quando i carabinieri scoprono “il grande inganno”, come esso viene definito nel corso della narrazione, la comunità viene trasportata in città dove la vita è ancora peggiore, sebbene Lazzaro seguiti ad attraversare gli eventi con innocenza assoluta, muovendosi nello spazio e nel tempo.
La prima parte del terzo lavoro di Alice Rohrwacher, che ha ricevuto un’ottima accoglienza e lunghi applausi al termine della proiezione, sembra riallacciarsi idealmente al film precedente, con una descrizione precisa della vita campestre, e dove la bella fotografia di Hélène Louvart fa splendere i paesaggi creando dei veri e propri quadri visivi che sembrano ispirarsi alle opere di Giovanni Fattori e Giovanni Segantini con la rappresentazione realistica della fatica e del duro lavoro nei campi. Proprio questa parte, che prende complessivamente un terzo del film, risulta la più riuscita, quella che la regista toscana dimostra di saper padroneggiare meglio ed in cui si sviluppa l’amicizia tra il ricco proprietario terriero e il povero mezzadro, con accenti che sembrano rimandare, sebbene in maniera inevitabilmente più grossolana, a Novecento di Bernardo Bertolucci. Peccato che, ad un certo punto, la narrazione prenda una piega completamente diversa svoltando nel grottesco e nel surreale, trasformandosi in una sorta di apologo, che è apparso decisamente fuori tempo massimo, sull’innocenza e la purezza, destinate a soccombere in un mondo basato sulla sopraffazione, in qualunque luogo e in qualunque tempo si viva. Tra l’altro, il fatto che la vita contadina si dimostri migliore (o meno peggio) della vita in città sembra lanciare messaggi ambigui, che odorano di conservazione. In maniera fin troppo semplicistica e didascalica, e senza alcuna reale profondità sociologica e psicologica, Rohrwacher isola il suo personaggio mettendolo di fronte ad una serie di situazioni paradossali, presentate quasi sempre in maniera schematica, creando volutamente un effetto straniante, ma procedendo molto a fatica nei vari passaggi che mescolano e confondono realtà e fantasia, e sovrappongono il tempo e lo spazio. Intendiamoci: in termini generali, non è affatto un male che un film prenda improvvisamente territori rischiosi e spiazzanti, specie quando questa operazione viene tentata da un’opera nostrana che – questo va riconosciuto all’autrice – ambisce ad uscire da territori troppo codificati e narrazioni standardizzate per lanciarsi in sperimentazioni narrative inconsuete ed estranee ai canoni tradizionali.
Il problema di Lazzaro felice, però, è che la Rohrwacher dà l’impressione di effettuare questa ibridazione un po’ a caso e, volendo uscire dai cliché nostrani sopra richiamati, finisce per farsi assorbire da altri e usurati stereotipi, specie nella stucchevole rappresentazione della dicotomia città-campagna, e nella descrizione del popolo che manca sia della reale cattiveria di un’opera come Brutti, sporchi e cattivi di Ettore Scola sia di precisione socio-antropologica. Lo spettatore si trova così davanti ad uno strano guazzabuglio e ad un susseguirsi di quadri che appaiono o incompleti in sé o, quando più compiuti, slegati rispetto alla narrazione. Il ritmo del film risulta allora claudicante lungo i suoi 125 minuti (una durata “importante” che appare poco giustifcata) portando lo spettatore verso un finale decisamente poco riuscito, che chiude in maniera fin troppo prevedibile un discorso portato avanti senza particolari scatti.
Lazzaro felice paga sostanzialmente la mancanza di un registro: non è né divertente, né realmente tragico, punta al grottesco senza raggiungerlo perché privo di ironia e lascia interdetti quando prova ad essere surreale. Resta solo l’interessante contributo attoriale dell’esordiente Adriano Tardiolo, mentre ben poco incisive appaiono l’Antonia di Alba Rohhwacher e la marchesa Alfonsina De Luna di Nicoletta Braschi, accompagnata in sala dal marito Roberto Benigni, molto applaudito dal pubblico.
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