Cannes 2018, gli ultimi fuochi del Concorso
Soiamo ormai all’ultimo giorno di proiezioni qui sulla Croisette (domani in programma solo le repliche e il film di chiusura, il Don Chisciotte di Terry Gilliam), di un Concorso che quest’anno conta ben ventuno titoli, lo stesso numero di due anni fa e due in più della passata edizione. Mentre scriviamo manca ancora all’appello l’ultimo film, The Wild Pear Tree del turco Nuri Bilge Ceylan, presenza fissa al Festival e più volte premiato, nel 2014 anche con la Palma d’oro per The Winter Sleep, probabilmente non uno dei suoi film migliori. Molto applaudito ieri alla proiezione stampa Capharnaüm, terzo lungometraggio di Nadine Labaki (Caramel, E ora dove andiamo?), storia di ambiente sottoproletario ambientata in una baraccopoli libanese, che vede al centro il piccolo Zain, che cerca di salvare l’amata sorella minore, di appena undici anni, da un matrimonio di convenienza che consiste, in buona sostanza, ad essere venduta come sposa bambina. Quando il crimine, figlio della disperazione, si compie, Zain scappa lontano e si imbatte in una cameriera etiope affezionandosi al piccolo bebè di lei. Capharnaüm è un viaggio allucinante tra le strade poverissime di Beirut che racconta il dramma dell’infanzia perduta, lo scandalo delle spose bambine, la povertà in cui versa una parte della popolazione costretta a vivere di stenti. Il film, che voci danno come uno dei possibili candidati alla Palma d’oro, funziona molto bene nei primi due terzi e poggia sulle spalle del piccolo Zain Al Rafeea, rifugiato siriano di 14 anni, il cui sguardo di innocente brutalizzato che ha perduto il suo candore, è di una potenza tale da bucare lo schermo. Il film è ben girato, con un ritmo trascinante sebbene indulga talvolta in inutili ralenti e si serva di una musica molto invasiva, espedienti che tesi a blandire lo spettatori. La sceneggiatura, inoltre, rende il film un lungo flashback, espediente che si rivela inutile e un po’ forzato. Tuttavia, almeno per due terzi, Capharnaüm è davvero molto potente e ci sono numerosi momenti in cui la commozione tracima nell’assistere a questa struggente vicenda di candore rubato. Peccato che il punto di arrivo del film sia moralmente irricevibile in quanto punta il dito contro le vittime, estraendole dal contesto, e che la regista preferisca puntare su un finale ipocrita e rassicurante che rischia di svilire l’ottima denuncia della prima parte lasciando che lo spettatore torni a casa parzialmente risarcito. Dal neorealismo in poi, l’utilizzo dei bambini nel cinema ha avuto moltissime declinazioni, ma per poter parlare di neorealismo bisognerebbe avere il coraggio di andare fino in fondo.
L’ultima giornata del Concorso ha regalato anche altri due film: Un couteau dans le coeur di Yann Gonzalez, l’ultimo dei cinque film francesi in competizione, e Ayka del regista kazako Sergey Dvortsevoy, secondo lungometraggio di funzione dell’autore dell’apprezzabile Tulpan, vincitore nel 2008 del premio “Un Certain Regard”. Un couteau dans le coeur è la storia di una produttrice di film gay, interpretata da Vanessa Paradis, che cerca di riconquistare il cuore dell’amata Lois, ed è intanto impegnata sul set nel tentativo di girare un nuovo film, che sia un po’ diverso dagli altri. La situazione si complica quando alcuni attori impegnati sul set vengono assassinati e i superstiti si rifiutano comprensibilmente di tornare a lavoro. Al di là della trama il film di Gonzalez, già autore di Rencontres après la minuit, è un oggetto folle e squilibrato, slabbrato ed eccessivo, spesso debordante, ma illuminato da ottimi momenti. Per quanto si abbandoni talvolta al kitsch più sfrenato, Gonzalez dimostra di possedere un gran controllo della messinscena e realizza un’opera rischiosa, insolita e bizzarra, che ha il coraggio di osare mescolando, sebbene con più di una ridondanza, la realtà, il sogno e la rappresentazione (l’espediente del “film nel film”), strizzando l’occhio a Omicidio a luci rosse di Brian De Palma. Bizzarro e affascinante, resta per chi scrive una delle belle sorprese di Cannes 71.
Infine, Ayka è il ritratto a tinte fosche di una rifugiata politica kirghisa priva di documenti in cerca d’asilo politico in Russia che, dopo aver abbandonato il figlio da poco partorito in ospedale, cerca di sbarcare il lunario vagando in una Mosca coperta di neve. Girato tutto con l’utilizzo della macchina a mano, che non lascia neanche per un attimo la protagonista, Samal Esljamova, Ayka è un’opera dai toni oscuri, penalizzato da una monotonia che non permette di costruire un adeguato quadro d’insieme di un Paese che, dopo il crollo del Muro, viene visto come una terra promessa ma che nella realtà rende l’integrazione a dir poco un miraggio. L’iterazione dei comportamenti della protagonista rendono il film pesantemente ripetitivo, privo di qualsiasi respiro.
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