“Cosmopolis” di David Cronenberg: l’ultimo viaggio al termine della notte
Eric Packer, giovane miliardario, una mattina sale a bordo della sua limousine superaccessoriata allo scopo di andare a tagliarsi i capelli a Hell’s Kitchen, sobborgo di Manhattan, dall’altra parte della città. Nonostante gli avvertimenti delle sue guardie del corpo che lo mettono in guardia sul fatto che il Presidente degli Stati Uniti in persona sta attraversando la città e che ci sono serie minacce di attentati e attacchi anche contro di lui, Eric è determinato a portare a termine il suo proposito di “aggiustarsi il taglio”. Sarà una lunga odissea.
In A Dangerous Method, uno dei suoi film più insoliti, David Cronenberg mostrava le ossessioni, i turbamenti nonché i disturbi di Carl Gustav Jung, Sigmund Freud e Sabina Spielrein, narrando una vicenda morbosa ma piena di umanità. Ora, nel suo ventunesimo lungometraggio per il cinema, adattando splendidamente Cosmopolis, il grande e profetico romanzo (2003) di Don DeLillo, il regista canadese ci mostra le vicende di personaggi che appaiono invece come dei veri e propri cyborg al servizio del Capitale.
Nel corso del viaggio, nell’auto di Packer si alternano vari personaggi: una prostituta (Juliette Binoche), analisti finanziari, esperti di economia e di Borsa, il vice-medico curante che rivela ad Eric, in una memorabile sequenza di humour nero, i suoi problemi urologici (“Lei ha la prostata asimmetrica”). La limousine di Packer è il luogo in cui si analizzano e si commentano gli indici finanziari, le oscillazioni della Borsa e l’andamento paurosamente alto della moneta cinese, ma dove si discute sostanzialmente sul Nulla perché come recita un cartello portato da un dimostrante: “Uno spettro si aggira per il mondo: lo spettro del capitalismo“: l’utopia e la speranza con cui si aprivano il Manifesto di Marx e Engles sono ormai diventati una distopia. Il Nulla domina anche altre situazioni che si susseguono nel film: le asettiche conversazioni sul sesso e la poesia tra Eric e sua moglie (“Di cosa parliamo?” chiede Eric alla signora Packer all’inizio di uno dei loro numerosi incontri totalmente privi di pathos), lo scambio di battute (degno del teatro dell’assurdo) in cui il barbiere, finalmente raggiunto, e l’autista di Eric si raccontano le rispettive carriere di ex-tassisti, il confronto finale tra Benno Levin (un formidabile Paul Giamatti) e lo stesso Eric nella delirante e tesissima scena finale.
Film straordinario, spiazzante, volutamente sgradevole nei suoi eccessi quasi programmatici, Cosmopolis è qualcosa di più di una splendida allegoria sulla Fine del Capitalismo. È un film sulla decadenza assoluta della nuova Città Universale, antitesi dell’antica Cosmopoli romana e dei suoi fasti, in un’epoca che si proietta ormai oltre il postmoderno, un film sulla paranoia e l’ossessione del Nemico da abbattere o da cui difendersi ma cui è difficilissimo dare un nome od un’identità. Cosmopolis è allora la parabola estrema che mostra il definitivo e ormai insanabile divorzio tra le parole e le cose. I personaggi del film non sono né nevrotici né pazzi: essi sono oltre la nevrosi e la pazzia. In un mondo distopico, essi non possono essere altro che dei dis-sociati, i perfetti rappresentanti di una realtà in cui “il topo diventò l’unità monetaria”, come recita la citazione del poeta polacco Zbigniew Herbert riportata in esergo, che apre il film.
Lo sguardo lucido e freddo della macchina da presa si appunta non solo sul protagonista (un Robert Pattinson perfettamente in palla), pronto a immolarsi come vittima sacrificale sull’altare del cyber-capitale, ma anche sulla follia della Massa, sulla sua irrazionalità, sulla sua incapacità di centrare il bersaglio nelle sue proteste contro un avversario sempre più evanescente ed impalpabile. E dunque, se l’alta finanza è tutta una questione di “click” e zeptosecondi (o yoctosecondi) e se la vita sfugge di mano perché “è troppo contemporanea”, l’unico atto sovversivo possibile rimasto è quello di lanciare topi in un ristorante o torte in faccia al miliardario di turno. Apocalisse, now. Un’apocalisse chiassosa e schiamazzante ma ormai sempre più inutile ed innocua.
Fra i riferimenti letterari, oltre al testo di De Lillo (riprodotto fedelmente e a cui si deve buona parte degli straordinari dialoghi), è impossibile non pensare ai racconti di William Gibson, al cyberpunk (parafrasando l’incipit di Neuromante, si può dire che “il cielo sopra New York/Cosmopolis ha il colore della televisione sintonizzata su un canale morto”), all’iperrealismo di James G. Ballard (già setacciato da Cronenberg nel magnifico Crash (1996) tratto da un suo romanzo), alla fantascienza di Philip K. Dick (che altro è la limousine di Packer se non una navicella spaziale?), persino all’“Odissea” di Omero. Questa volta, tuttavia, ad attendere Packer, novello Ulisse, non c’è più nessuna Itaca ma solo i deliri di un folle.
Film nerissimo e gelido, senza speranza, è un film sul Presente, su una società dominata dallo “spread” e dall’oscillazione dello yuan, ma che si proietta, sia come “testo” che come discorso sulla realtà, avanti di almeno venti anni. Non esistono mezze misure per un racconto estremo come Cosmopolis: prendere o lasciare. Noi prendiamo!
©RIPRODUZIONE RISERVATA – Ne è consentita esclusivamente una riproduzione parziale con citazione della fonte, Milena Edizioni o www.rivistamilena.it