“Django unchained” di Quentin Tarantino: una meravigliosa scorpacciata di cinema
Texas, 1858. Un gruppo di schiavi neri attraversa un paesaggio roccioso quando i due mercanti che li trasportano si imbattono in una carrozza condotta dal Dr. King Schultz, un curioso personaggio di origini tedesche. Schultz è un ex-dentista, ora cacciatore di taglie, e chiede ai due mercanti di poter acquistare uno dei loro schiavi, Django, che conosce le sembianze dei fratelli Brittle, due fuorilegge di cui Schultz è alla caccia. La contrattazione finisce in una rocambolesca sparatoria, al termine della quale Schultz uccide con abilità i due mercanti, libera gli schiavi e porta via con sé Django. Eliminati i fratelli Brittle, Schultz e Django decidono di restare insieme. Per ringraziarlo del favore, Schultz si offre di aiutare Django a liberare la moglie Broomhilda che lavora come serva in casa del giovane e ricco latifondista Calvin Candie.
“Voi non lo sapete, ma quest’uomo è stato la più grande star del mondo!”. Così parlò Quentin Tarantino e “l’uomo” cui egli si riferisce non è né Marlon Brando né Robert De Niro, bensì Franco Nero, protagonista del primo Django, diretto da Sergio Corbucci nel 1966, prototipo di una sequela chilometrica di seguiti, rifacimenti, reinvenzioni, storpiature e parodie ad esso ispirati, quasi sempre con occhio esclusivo alla “cassetta” e senza ambizioni autoriali. Candidato a cinque premi Oscar (film, sceneggiatura, attore non protagonista/Christoph Waltz, fotografia, montaggio sonoro), due dei quali andati a segno (sceneggiatura e Waltz) il film venne a rinverdire un genere che, come una fenice, ogni tanto diventa démodé (leggi: sorpassato) per poi risorgere e assurgere a nuovo splendore. Molte sono state le critiche piovute addosso al film: Spike Lee lo accusò di mettere in burla la faccenda maledettamente seria dello schiavismo (ma, caro Spike, cosa dovrebbero dire i partigiani da te denigrati nell’ignobile Miracolo a Sant’Anna?). Altri ne hanno sottolineato gli anacronismi (ad esempio, la dinamite è stata inventata nel 1867 e “Per Elisa” di Beethoven, che si ascolta al pianoforte in casa Candie, fu rappresentata per la prima volta in pubblico solo nel 1876). Altri ancora ne hanno deplorato gli eccessi splatter, le eccentricità e le “sgradevolezze” visive, forse dimenticando i trascorsi del regista.
A noi sembra invece che l’opus n°7 di Tarantino sia una scommessa vinta, nel suo presentarsi come uno spettacolo che trae linfa vitale proprio dall’amplificazione, volutamente parossistica, di tutti gli stereotipi del genere. Django unchained è un’opera preziosa e straordinaria, soprattutto grazie alla sua rara capacità di essere cinema puro, formidabile divertissement ultra-cinefilo, che squaderna durante i suoi 165 minuti una gamma vastissima di generi, sottogeneri e registri filmici, mescolando superbamente il basso con l’alto, e spingendo a tutta velocità il mezzo cinematografico, magnificato in tutte le sue possibilità espressive. Così lo spaghetti-western (of course) può convivere con Richard Wagner (la storia di Django e Broomhilda paragonata a quella di Sigfrido e Brunilde narrata ne L’anello del Nibelungo rappresentata nel 1876: altro anacronismo sì, ma che importa?), nella prodigiosa colonna musicale il Maestro Ennio Morricone si alterna con Johnny Cash, e Luis Bacalov può convivere accanto a James Brown, e si può persino ascoltare un rap. Per non parlare della macchina da presa, che alterna splendide soggettive ricche di tensione con un uso a dir poco spregiudicato, volutamente sgrammaticato, dello zoom.
Il regista non ha l’ambizione, fatalmente votata allo scacco, di voler ricreare la Storia né quella di voler dire la sua su temi complessi come il razzismo e lo schiavismo. Permeato in ogni sua fibra di amore per il cinema, meglio se “basso” e “volgare”, Django unchained si tiene a nostro avviso sapientemente lontano (o, tutt’al più, a lato) dai territori critici della sociologia e della morale, accontentandosi (si fa per dire) di esplorare la riproducibilità dell’arte e le infinite possibilità della narrazione. Per questa ragione, il film appare come un’esaltazione della forza dirompente del linguaggio (pochi sembrano avere il coraggio di ammetterlo, ma Quentin Tarantino è uno dei registi più raffinati del mondo), che fa della (ri)scrittura filmica e dell’ipertrofia verbale i suoi maggiori punti di forza. Messe in sordina la dimensione politica e quella storico-sociologica, ridotte perlopiù a pretesto, il regista e i suoi attori possono dar fuoco alle polveri del loro istrionismo. In questo modo, mentre il regista può divertirsi a far esplodere in mille pezzi il suo stesso corpo con la dinamite, gli attori gli tengono perfettamente il gioco. Si veda, ad esempio, il Dr. Schultz, la sua incontenibile capacità oratoria e affabulatoria, la sua inarrestabile forza di persuasione; oppure il delirante discorso di Candie/DiCaprio sulla frenologia e la giustificazione della schiavitù (in una sequenza di straordinaria tensione, magistralmente condotta), o infine la pulce nell’orecchio messa dal servo Stephen al suo padrone sulle reali intenzioni dei suoi ospiti che fa da apripista all’inevitabile precipitare degli eventi.
La differenza principale, dunque, tra Tarantino e i suoi modelli e progenitori, tra il suo “Django senza catene” e i vari Django-Trinità-Sartana, buoni-brutti-cattivi, trilogie del dollaro et similia ispirati a Sergio Leone, sta negli straordinari personaggi e nei dialoghi da Oscar che il regista, autore come sempre dello script oscarizzato, ha messo loro in bocca. Il Django di Jamie Foxx è una giusta mistura di ironia e rabbia mentre Leonardo DiCaprio, al meglio della sua forma, infonde al suo crudele e amorale Calvin Candie la statura e la (ig)nobiltà di un Caligola post-litteram. Samuel L. Jackson, mimetizzato sotto un trucco che lo rende quasi irriconoscibile, si struscia come un gatto ai piedi del suo padrone per poi instillare in lui il siero del Male come un novello Iago shakespeariano. Ma una testa sopra tutti si erge Christoph Waltz, che disegna in maniera geniale il suo Schultz, col suo curioso mix di cultura germanica e adesione all’American way of justice che distribuisce la morte per conto dello Stato, a colpi di pistole, fucili e carta bollata. A lui si devono i numerosi momenti scanzonati di un film ironico e qua e là addirittura esilarante (su tutte la geniale sequenza della nascita del Ku Klux Klan, degna di Mel Brooks).
Attenzione, però, alla scena dei cani in cui, come nella sodomizzazione del gangster in Pulp Fiction (1994) e nella strage di ebrei nel prodigioso incipit di Bastardi senza gloria (2009), il regista inserisce un momento di orrore assoluto, di lucido e critico sadismo, (per)turbando lo spettatore e costringendolo ad entrare dentro il cuore tenebroso del Male.
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