“Il sacrificio del cervo sacro” di Yorgos Lanthimos: le catene della colpa
Steven (Colin Farrell) è un famoso chirurgo cardiotoracico. Insieme alla moglie Anna (Nicole Kidman) e ai loro due figli, Kim e Bob, vive una vita felice e ricca di soddisfazioni. Un giorno Steven stringe amicizia con Martin, un sedicenne solitario che ha da poco perso il padre, e decide di prenderlo sotto la sua ala protettrice. Quando il ragazzo viene presentato alla famiglia, tutto ad un tratto, cominciano a verificarsi eventi sempre più inquietanti, che progressivamente mettono in subbuglio tutto il loro mondo, costringendo Steven a compiere un sacrificio sconvolgente per non correre il rischio di perdere tutto [sinossi].
Il sacrificio del cervo sacro è il quinto lungometraggio di Yorgos Lanthimos, premiatissimo cineasta greco che, dopo una commedia (O kalyteros mou filos) girata a quattro mani nel 2001 con Lakis Lazopoulos, esordisce alla regia nel 2005 con Kinetta. Il successivo Dogtooth vince il premio come miglior film a “Un Certain Regard” a Cannes nel 2009 e sancisce il trionfo del regista, i cui film continuano a mietere premi: l’Osella per la migliore sceneggiatura alla Mostra del cinema di Venezia per Alps (2011, distribuito nelle sale italiane solo due anni fa), il Premio della Giuria a Cannes per The Lobster (2015, anch’esso interpretato da Colin Farrell) e, sempre a Cannes, il premio per la migliore sceneggiatura (ex-aequo con A Beautiful Day di Lynne Ramsay) l’anno scorso con il film oggetto di questo contributo. Tutti i film di Lanthimos, ad eccezione dell’opera d’esordio, sono scritti dal regista insieme a Efthymis Filippou in una collaborazione proficua che sembra ricalcare, fatte le debite proporzioni rispetto allo spessore e alla profondità di scavo psicologico dei rispettivi film, il rapporto tra Krzysztof Kieślowski e il fido collaboratore Krzysztof Piesiewicz, co-autore di tutti i film fondamentali del compianto maestro polacco, da Senza fine a i Tre colori passando per il Decalogo.
Con Il sacrificio del cervo sacro Lanthimos realizza, ad avviso di chi scrive, il suo film più solido e riuscito, quello in cui la costruzione drammaturgica, la caratterizzazione dei personaggi e le scelte di messinscena raggiungono la sintesi più compiuta ed efficace. Se le opere precedenti davano l’impressione di far prevalere l’assillo della dimostrazione di una tesi, presentata con un’insistenza ed una sottolineatura eccessive, tali da ingolfare il racconto rendendolo troppo cerebrale e programmatico, questa volta Lanthimos sembra cogliere perfettamente il bersaglio con una storia in cui la rivisitazione e l’aggiornamento di un archetipo della classicità (il mito di Ifigenia) si salda, con straordinaria lucidità e precisione, ad una feroce critica dell’istituto familiare e dei suoi fragili equilibri con in più un’originale riproposizione del conflitto di classe. Infatti, se il titolo rimanda al mito greco descritto nella tragedia di Euripide, con il rito purificatore richiesto dal giovane Martin al chirurgo interpretato da un ottimo Colin Farrell, lo scontro all’interno del milieu borghese serve a rivelare la crisi (modernissima) in cui versa la famiglia. cellula del tessuto sociale, capace di sopravvivere solo a patto di una sua profonda ed estrema messa in discussione.
Martin (interpretato da un inquietante e bravissimo Barry Keoghan, attore irlandese già visto in Dunkirk di Christopher Nolan) è un novello angelo sterminatore che scompagina le sicurezze dei suoi antagonisti, rappresentanti di un mondo scientificamente ordinato in cui fanno irruzione il sortilegio e la stregoneria, e dove l’esistenza degli individui appare improvvisamente minacciata da una sorta di metafisica indomabile e perversa. Lanthimos utilizza magistralmente lo spazio rinchiudendo i suoi personaggi dentro scenografie dove, a dispetto della perfezione geometrica, si assiste allo sgretolamento di un mondo che, citando William Shakespeare e il suo Amleto, “è ormai fuor di squadra” e dove l’ordine è solo apparente. Non a caso, la resa dei conti si svolge nei sotterranei del lussuoso appartamento abitato dai due coniugi, metafora perfetta di una discesa dentro i recessi più profondi, luogo che diventa teatro dove compiere la vendetta o espiare la colpa.
A differenza della freddezza glaciale dei suoi film precedenti, dove i personaggi venivano osservati con la lente d’ingrandimento e l’inflessibilità di un entomologo, questa volta il regista sembra volersi portare maggiormente a ridosso delle loro coscienze: il cardiochirurgo viene sorpreso nell’atto di piangere, mentre tra i giovani Martin e Kim si affaccia un’attrazione erotica e sentimentale che dura fino allo splendido e struggente finale, che ovviamente non anticipiamo. Se un sentimento di provocazione, tutto sommato abbastanza futile e fine a se stesso, permeava le opere precedenti del regista, intrappolandole nelle paludi della sterilità, Il sacrificio del cervo sacro è invece un grande film sul sentimento di colpa come male necessario, passaggio obbligato per giungere all’etica della responsabilità, sebbene anche qui non manchino talune sbavature, quando talvolta il regista sembra indulgere in maniera gratuita e fastidiosamente compiaciuta in dialoghi impregnati di crudeltà e ferocia, in una totale assenza di pietà e compassione per/fra le vittime.
Steven è colui che, per mestiere, opera a cuore aperto mentre sua moglie Anna è un’oftalmologa, professionista per la quale il vedere è tutto rinchiuso dentro i confini ben tracciati dell’oggettività. La scienza non basta per rianimare un cuore che sta per smettere di pulsare e l’irrompere del Fato può rendere ciechi anche gli occhi più spalancati. In questo senso, Eyes wide shut di Stanley Kubrick non è lontano, e il film abbonda di rimandi al capolavoro terminale del maestro statunitense, sia nella scelta degli splendidi movimenti di macchina che nel rapporto che lega il dottor Murphy e sua moglie.
Il sacrificio del cervo sacro è la messinscena della rivolta del caos contro l’ordine, la distruzione della commedia borghese attraverso la tragedia, la rivincita di una delle belle arti, la letteratura, sui trattati scientifici (solo la conoscenza dei testi classici permette la soluzione dell’enigma, e non a caso il piccolo Bob eccelle nella matematica e nella fisica mentre sua sorella Kim è bravissima in letteratura e filosofia), l’affermazione di un mondo in cui contano i simboli piuttosto che i fatti, dove la logica e la razionalità devono arrendersi all’assurdo. Nella colonna sonora lo Stabat Mater di Franz Schubert, le musiche di Bach e Gyorgy Ligéti. Da non perdere.
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