Jessica Jones, o i dolori del giovane super
Che i giustizieri targati Netflix siano realistici si sa, in linea alla formula di Stan Lee “supereroi con superproblemi”. Quando poi il tema dell’eroe dotato si colora di noir, tutto si esaspera e una vena di tristezza alla Marlowe avvolge il mondo disincantato dell’investigatore di turno. Poco cambia se quest’ultimo oltre a saltare i pasti sia anche in grado di saltare dal quinto piano di un palazzo, la sostanza è la stessa: la vita è una sporca faccenda e l’unico modo di guardarla in faccia è attraverso il fondo di una bottiglia. Questo presupposto d’ambiente è la chiave dell’adattamento televisivo del personaggio creato nel 2001 per la Marvel Comics da Michael Bendis, un clima ben rappresentato dalla sigla in animazione accompagnata da uno scettico fraseggio jazz. Scettico, infatti, è anche il biglietto da visita della nostra eroina che contiene in sé la radice quadrata della propria scissione interiore.
Jessica Jones, ossia, la promessa sensuale di un nome da modella ridimensionato bruscamente da un cognome comune e coi piedi per terra, tutto un programma per un personaggio che non fa che ridurre ai minimi termini ogni retorica buonista, annegandola dietro litri e litri di alcoolici. Di questa detective fuori dalla norma abbiamo imparato dalla prima stagione, andata in onda nel 2015, che pur non indossando costumi attillati ma jeans e “chiodo” di pelle nera, i poteri speciali non mancano. Jessica è dotata di una forza sovrumana e di una capacità di guarigione accelerata oltre alla capacità di spiccare brevi voli che preferisce definire “salti controllati”. Sfortunatamente, le doti che si è ritrovata in seguito a un incidente d’auto in cui ha perso la sua famiglia, le hanno portato solo problemi, tra cui l’odio della madre adottiva Dorothy Walker (Rebecca De Mornay), una donna rapace che manovra il talento della figlia Trish (Rachel Taylor), baby-interprete televisiva e poi conduttrice radiofonica con trascorsi di tossicodipendenza.
Alle difficili relazioni personali di Jessica e alla ricerca del proprio ruolo nel mondo, subentra poi un forte carico traumatico, cioè la sua lunga prigionia nelle mani di Killgrave, un grande David Tennant che interpreta un mutante folle e pericolosissimo in grado di dominare la psiche delle sue vittime.
La prima stagione del personaggio si barcamena tra figure carismatiche (Tennant), spin-off (l’introduzione del riluttante eroe Luke Cage) e qualche stereotipo narrativo di troppo nel sottolineare il disagio esistenziale della Jones, dagli atteggiamenti insistiti da “dura” e dalla psicologia ancora non ben delineata. Un limite che in parte si giustifica con l’impegnativa prova d’attrice della pur brava Kristen Ritten, sulle cui spalle gravano la maggior parte delle scene. Compito non facile, ostacolato dall’andamento lentissimo voluto dalla showrunner Melissa Rosenberg, un taglio che ingolfa nell’autocompiacimento il clima di dissoluzione etilica dell’investigatrice, rendendola più cliché che persona vera.
Salvata da un intreccio comunque dignitoso, per quanto tragico, il serial si lascia seguire contando molto sulla ricchezza di sfumature del personaggio di Tennant, sempre controllato nel gestire una figura potenzialmente insopportabile, mentre si gettano le basi degli interrogativi che vengono parzialmente svelati nella seconda stagione, ciclo per certi versi ancora interlocutorio, ma più intenso e approfondito sul piano psicologico. Una disamina della trama consente di rivelare poco se non si vuole incappare in un tripudio di spoiler, quel che balza all’occhio da una visione globale è l’enorme crescita del personaggio JJ, aiutato nella sua maturazione da un passato che ne motiva i comportamenti (vedi l’origine della “divisa” portata come un segno di lutto, oppure l’origine del nome “Alias”, che sigla l’agenzia investigativa). Ma oltre al ritmo più serrato e i colpi di scena che vivacizzano la storia, spicca l’empatia che la Ritten mostra di aver acquisito col proprio ruolo, abito che indossa con naturalezza quasi fosse una seconda pelle. Con la sua dolorosa umanità, fragile, ruvida e combattuta, la giovane attrice si avvale di una mimica espressiva per nulla manierata, di una costante tenuta del personaggio e di una caratterizzazione sempre più a tutto tondo, ben distante dalla figurina ritagliata all’interno del team-up di The Defenders.
Allo smarcarsi dalla convezione tutta bar malfamati e sciatteria, si unisce un soggetto imperniato sulla detection, che già da sé mantiene viva l’attenzione dello spettatore intorno ai segreti che circondano la mai precisata acquisizione dei poteri della Jones e la dinamica dell’incidente d’auto che spezza in due la sua vita. Una fitta trama di insabbiamenti e morti misteriose ruotano intorno alla “zona grigia” del passato di Jessica, portando a galla fili sospesi narrativi come la sorte di Simpson (Wil Traval) il poliziotto trasformato in violenta macchina assassina da un trattamento terapeutico sperimentale, più altre figure comprimarie che ruotano intorno alla IGH, il centro medico che fa a capo di tutti gli eventi.
In mancanza di un villain unico e ingiustificabile come Killgrave, che pure torna a comparire in gustosi siparietti sotto forma di allucinazione, nel dipanarsi della rete di segreti si delinea comunque la presenza inquietante di Alisa (Janet McTeer), altra “cavia” che, essendo dotata degli stessi poteri dell’investigatrice, ne rappresenta il lato oscuro oltre a essere l’origine della sua stessa esistenza. Il palcoscenico psicologico dei conflitti familiari subentra gradualmente nell’intreccio, rendendo ulteriormente complesso il giudizio dello spettatore sui personaggi, tutti manovrati da forze soverchianti e costretti a scelte a volte discutibili, a volte addirittura criminali. In quest’ottica il discorso è aperto a sviluppi che troveranno spazio nell’annunciata terza stagione, dalla relazione di attaccamento e competizione tra le sorellastre Trish e Jessica, esasperato dalle manovre della madre-agente teatrale Dorothy, alla scelta di campo di Malcom Ducasse (Eka Darville) ex tossico, ex socio, ex amico di Jessica passato al servizio della sempre più gelida e manipolatrice Jeri Hogarth (un’eccellente Carrie-Ann Moss che sarà una presenza fissa anche nel cast di Iron Fist).
L’ottimo livello della recitazione è condiviso anche da una serie di figure comprimarie, contraddittorie come l’ambiguo “costruttore di supereroi” dottor Malus (Callum Keith Rennie) o umane e sensibili come il detective Costa (John Ventimiglia) e il sovrintendente del palazzo Oscar (J.R. Ramirez), tutte presenze che arricchiscono la resa di questa seconda serie, in cui la quantità di temi forti presentati mette quasi in secondo piano l’aspetto fantastico e quello noir. La lacerazione dei conflitti familiari e il bisogno di trovare la proprie radici sono già abbastanza sufficienti per rendere coinvolgente la personale guerra contro il mondo di JJ, permettendole attraverso mille domande una crescita che la rende una persona forse non risolta, ma di sicuro più forte e consapevole. Ironico che la chiave di volta di questo processo sia il rapporto con la sua controparte omicida, Alison, i cui dialoghi assennati tra uno scatto d’ira e l’altro sono più efficaci del bourbon o dell’ipnosi per attutire i tormenti esistenziali.