Venezia 75, giorno 4: “Suspiria” di Luca Guadagnino è un bellissimo pasticciaccio
Oggi qui a Venezia è il giorno di Luca Guadagnino e del suo Suspiria, rifacimento del celebre film diretto da Dario Argento nel 1977. Applausi non troppo convinti e qualche sparuto fischio hanno accompagnato i titoli di coda alla seconda proiezione stampa del mattino per quello che sembra destinato a essere il film più divisivo del Concorso con due fazioni contrapposte, delle quali una grida al capolavoro, l’altra al disastro. Notevoli sono le differenze tra il classico argentiano e la sua trasposizione ad opera del regista palermitano, che si avvale di un minutaggio molto più consistente (quasi un’ora in più, cui forse uno sforzo di sintesi non avrebbe nuociuto): Guadagnino trasporta la storia, che Argento aveva tratto da Suspiria De Profundis di Thomas de Quincey, nella Berlino del 1977, scegliendo quindi l’anno di uscita dell’opera ispiratrice e una città a quel tempo divisa in due parti dal celebre Muro. Durante la conferenza stampa, Guadagnino ha voluto dichiarare pubblicamente il suo amore per Argento, dicendo di avere visto Suspiria da giovanissimo e di averlo subito amato alla follia. A tal proposito, ha voluto raccontare un aneddoto di molti anni prima quando, da ragazzino, trascorse un intero pomeriggio a seguire il suo idolo, spiandolo dalla finestra di un ristorante mentre l’autore di Profondo rosso consumava il pranzo.
La storia ruota attorno a Susie Bannion, giovane danzatrice statunitense, interpretata da una poco convincente Dakota Johnson (al suo secondo film con il regista dopo il dimenticabile A Bigger Splash), che arriva in Germania per un’audizione alla Helena Markos Dance Company, il cui corpo di ballo è diretto dalla famosa Madame Blanc (la sempre bravissima Tilda Swinton), personaggio ricalcato sulla grande coreografa Pina Bausch. Quando Susie diventa la ballerina di prima fila, Olga, che aveva quel ruolo in precedenza, accusa le donne della compagnia di essere delle streghe. Prima della prova generale, Susie e Madame Blanc diventano stranamente vicine, il che lascia intendere che il proposito di Susie va ben oltre la danza. Intanto, uno psicoterapeuta, con l’aiuto di Patricia, un’ex-allieva ora divenuta sua paziente, tenta di scoprire gli oscuri segreti che si nascondono all’interno della compagnia.
Reduce dal successo del sopravvalutato Chiamami col tuo nome, che ha fruttato al vecchio James Ivory un Oscar per la sceneggiatura, Guadagnino alza notevolmente l’asticella della sua ambizione girando un film sontuoso e di grande fascino visivo, pieno di sequenze accattivanti nelle quali però il manierismo finisce per prendere spesso il sopravvento e dove il meccanismo narrativo s’inceppa, s’ingolfa, si disperde in mille rivoli rischiando di provocare nello spettatore una sensazione di sazietà e di rigetto. Guadagnino aveva annunciato il suo Suspiria dicendo che sarebbe stato “un altro film” rispetto all’originale. In effetti, accanto alla storia principale, che segue per sommi capi il filo del film di Argento, lo sceneggiatore David Kajganich (anch’egli lo stesso di A Bigger Splash) inserisce nel plot la vicenda della detenzione della banda Baader-Meinhof e il dirottamento di un Boeing della Lufthansa da parte di un commando palestinese che chiedeva la liberazione dei capi della Raf detenuti nel carcere di Stammheim, evocando entrambi gli episodi attraverso le notizie riportate da radio e televisione. Viene inoltre raccontata, invero in maniera piuttosto confusa, la storia dell’anziano psicoterapeuta-detective e della sua separazione dall’amata moglie Anke, deportata in un campo di prigionia sovietico nel 1943 nel corso di una retata da parte dell’esercito di Mosca.
L’impressione è che questi subplot siano inseriti con un certo grado di approssimazione, e il sospetto, a dire il vero poco edificante, è che il regista voglia mettere in relazione le due vicende (i misteri della fittizia Helena Markos Dance Company e il caso della vera banda Baader-Meinhof) insinuando che i contestatori del Sistema e le allieve dell’accademia sono/erano entrambi soggiogati da un incantesimo, svuotando in questo modo la complessità di un periodo storico a dir poco controverso. In questo senso, sembrerebbe prevalere lo sguardo e l’ideologia di un regista che trova probabilmente congeniale esplorare il milieu borghese (basti pensare al già citato Chiamami col tuo nome e al viscontiano Io sono l’amore), suo ambiente di riferimento, ma che diventa stucchevole quando prova ad inserire nel racconto la cronaca (la poco azzeccata sequenza della comparsa dei migranti in A Bigger Splash) o, come in questo caso, la Storia. Durante la conferenza stampa, il regista ha dichiarato di avere scelto di ambientare il film negli anni ’70 perché si tratta di un periodo storico in cui la rabbia dei giovani contro i padri era giunta al suo apice e, al contempo, il femminismo si stava facendo strada sempre di più. In realtà, nel film sembra dominare la logica della subalternità al capo rispetto alla forza e alla coesione del gruppo, come mostra la sequenza in cui una delle “madri” viene eletta con una votazione aperta, quasi ad affermare l’estrema democraticità del sistema contro il quale intanto ampie fasce di popolazione manifestavano nelle strade. Per di più, i rapporti tra le donne all’interno dell’accademia che funge anche da pensionato e dormitorio, lungi dall’animare e alimentare una spinta rivoluzionaria, sono dominati dalla crudeltà e dal sadismo, in maniera non molto dissimile da come accadeva in alcune opere del grande Rainer Werner Fassbinder.
Se quindi, al di là dei limiti ideologici che sembrano spingere il film nelle secche di una visione politico-sociale alquanto reazionaria, il Suspiria di Guadagnino brilla senz’altro per frammenti e può vantare un buon numero di sequenze notevoli non prive di un certo talento visionario quasi assente nel panorama italiano odierno, c’è da dire che l’insieme risulta prolisso e pomposo, narrativamente astruso nella sua gratuita tortuosità fino a arrivare ad un “gran finale” prolungato a dismisura che presenta più di una caduta nel ridicolo involontario, che ha suscitato in un paio di momenti una diffusa ilarità negli spettatori in sala.
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