Venezia 75, giorno 6: delusione Nemes con il suo affresco senza qualità
C’erano grandi aspettative per il secondo film di László Nemes, acclamato regista ungherese che, nel 2015, aveva esordito con il bellissimo Il figlio di Saul vincitore prima del Grand Prix della Giuria al Festival di Cannes e poi, l’anno successivo, dell’Oscar come migliore film straniero. Nemes approda a Venezia con Sunset, un lavoro ancora più ambizioso del precedente. Ambientato nella Budapest del 1913, cioè nel cuore dell’Impero austro-ungarico, il film ruota intorno alla giovane Irisz Leiter, giunta in città con il duplice scopo di diventare modista e di riprendere in mano il celebre negozio di cappelleria, che una volta apparteneva ai suoi defunti genitori. Arrivata sul posto, però, Irisz viene scacciata dal nuovo proprietario, il signor Brill. Mentre nel negozio Leiter fervono i preparativi per ricevere ospiti importanti, improvvisamente un uomo si presenta a Irisz, alla ricerca di un certo Kálmán Leiter. La giovane donna si rifiuta di lasciare la città ed inizia a seguire le tracce di Kálmán, unico legame con un passato ormai perduto, scoprendo che l’uomo in questione è suo fratello. La sua ricerca la conduce attraverso il tumulto di una civiltà alla vigilia della propria rovina.
Affresco sul tramonto di un’epoca, ritratto di un mondo che sta per tuffarsi nell’incubo della prima guerra mondiale, Sunset vorrebbe essere la descrizione di un luogo in cui albergano tutte le tensioni e dove coesistono opulenza e squallore morale, modernità e obsolescenza. Il regista sceglie di adottare lo stesso approccio filmico e le stesse tecniche di ripresa del lungometraggio precedente: predominio quasi assoluto della macchina a mano e dei primi piani, punto di vista esclusivo del personaggio principale che si muove in maniera convulsa e domina lo spazio visivo lasciando sullo sfondo il contesto. Mentre ne Il figlio di Saul la scelta si era rivelata vincente ed era anche giustificata dal pudore di fronte alla violenza, più suggerita che mostrata, in Sunset questa modalità tarpa le ali al film rendendolo narrativamente confuso e inutilmente claustrofobico. La grande differenza tra le due opere sta nel fatto che, mentre nell’esordio il filo narrativo era estremamente tenue, rivelandosi quasi un pretesto per immergere lo spettatore dentro l’orrore più radicale, Sunset si presenta invece come un racconto molto più ampio, con diversi personaggi importanti e un cospicuo numero di eventi e di svolte che avrebbero richiesto maggiore chiarezza in fase di scrittura e una minore reticenza in fase di messinscena. Infatti, durante il racconto è addirittura il Dostoevskij de I demoni che sembra talvolta fare capolino, sebbene appaia chiaro abbastanza presto che il regista non voglia impelagarsi nel complesso dedalo di psicologie e nella profondità psicologica disegnati dal grande scrittore russo. Irisz Leiter percorre appartamenti, strade e scaloni muovendosi come in un labirinto dove lo spettatore è costretto a perdersi insieme a lei, senza che però nessuna delle varie parentesi aperte vengano chiuse, nessuno dei misteri incontrati lungo il cammino venga veramente chiarito in quello che si può considerare a tutti gli effetti un thriller senza pathos, dove si viene subissati di informazioni e dove l’accumulo di fatti e di detour sembrano simili a un grosso pallone di ghisa che si gonfia senza mai scoppiare, e la cui pesantezza gli impedisce di sollevarsi da terra.
Pur avendo a disposizione un sontuoso budget, il regista sembra più interessato a mettere in campo soluzioni visive più o meno ardite, spesso stucchevoli e talvolta persino autolesioniste, che a squadernare un vero ritratto di una società al bivio in quanto il mondo che si vorrebbe rappresentare, uno stato multinazionale, apparentemente prospero, con una dozzina di lingue e tante genti diverse, con le sue fiorenti capitali Vienna e Budapest, che è il centro culturale del mondo, non è mai veramente in scena, ed è invece messo nell’angolo dalla presenza costante e pervasiva della protagonista. Per questa ragione, Sunset fallisce tutti gli obiettivi che sembrerebbe prefiggersi: ha un’ottica (letteralmente) troppo ristretta per porsi come affresco storico, mostra confusione quando tenta di raccontare una storia (che peraltro non coinvolge e non appassiona neanche per un minuto), rischia il ridicolo quando prova a lanciare stoccate contro il potere dell’epoca provando a schiacciare il pedale del grottesco, infila un finale superfluo in cui rende esplicita l’unica cosa chiara sino a quel momento. L’impressione generale è quindi che, pur non mancando sicuramente di talento, Nemes rischi di restarne imbrigliato come accaduto al nostrano Paolo Sorrentino. Avendo apprezzato molto l’opera d’esordio, restiamo dunque speranzosi che i lavori successivi possano risollevarlo dal disastro. Per un ritratto della Mitteleuropa che sappia mettere insieme storia e ironia, capacità di analisi psicologica e arguzia, meglio rivolgersi al signor Robert Musil e al suo Uomo senza qualità.
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