“L’uomo che uccise Don Chisciotte” di Terry Gilliam: un commovente disastro
Io amo colui che vuole creare
al di sopra di sé e così perisce
Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra
Toby Grisoni (Adam Driver), un giovane regista pubblicitario cinico e disilluso, si ritrova prigioniero delle folli illusioni di un vecchio calzolaio spagnolo convinto di essere Don Chisciotte (Jonathan Pryce). Imbarcatosi in un’avventura sempre più surreale, Toby è costretto a fronteggiare le conseguenze tragiche di un film che realizzò quand’era un giovane idealista: quel piccolo film da studente che traeva ispirazione da Cervantes ha cambiato per sempre i sogni e le speranze di un piccolo paesello spagnolo. Sarà in grado Toby di ritrovare un po’ di umanità? E Don Chisciotte sopravvivrà alla sua follia? [sinossi]
Un giovane regista che gira uno spot con al centro la figura di Don Chisciotte. Un vecchio DVD comprato da uno zingaro che contiene il film sul più celebre cavaliere della storia della letteratura, realizzato dallo stesso regista dieci anni prima. Il presente e il passato. Il colore e il bianco e nero. La realtà e il sogno. Il film da fare, quello già fatto, quello che si sarebbe potuto fare o che potrà ancora essere fatto, una storia che si scrive e riscrive, avvolgendosi su se stessa in una sorta di spirale infinita. I personaggi che cambiano identità a seconda che siano agganciati alla realtà o sublimati dall’arte. Uno scrittore del ‘600 che gioca sulle attribuzioni attribuendo la paternità dell’opera allo storico arabo Cide Hamete Benengeli. Un regista statunitense e i suoi personaggi, tutti bisognosi di uno o più alter ego. L’uomo che uccise Don Chisciotte è un’opera funestata da disastri, tra cui la distruzione del set a causa di un nubifragio e la malattia e la conseguente rinuncia al ruolo di Don Chisciotte da parte di Jean Rochefort (le vicissitudini del film sono raccontate nell’interessante Lost in La Mancha, documentario del 2002 diretto da Keith Fulton e Louis Pepe), in seguito poi i dissidi con il produttore Paulo Branco che ha cercato di bloccare l’anteprima che si è svolta regolarmente all’ultimo Festival di Cannes, dove il film è stato presentato Fuori Concorso come evento di chiusura.
Alla luce di tutti questi eventi, anche il discorso critico non potrà essere che caotico nel suo approccio all’ultima (e probabilmente terminale) fatica di Terry Gilliam, che ha regalato alla storia del cinema almeno un capolavoro, quel Brazil del 1985, geniale e impietosa disamina di un inquietante futuro distopico. È forse l’8 ½ di Terry Gilliam questo suo Don Chisciotte, opera pensata circa vent’anni fa, in altri luoghi e con altri attori (Johnny Depp al posto di Adam Driver, John Hurt che doveva rimpiazzare Jean Rochefort prima della definitiva scelta di Pryce)? Sarebbe bello poterlo dire e, in fondo, quasi tutti i registi sognano forse di realizzare qualcosa che sia altrettanto dirompente del capolavoro felliniano. Ma la risposta è senz’altro di no. Se l’autore de La dolce vita realizzò il suo film all’età ancora “giovane” di 43 anni mettendo in scena i tormenti sinceri di un autore spaventato dal suo successo, consapevole di avere raggiunto ormai il punto di non ritorno, se 8 ½ diventò per questo un’opera di una freschezza e una sincerità disarmanti, il Don Chisciotte di Gilliam sembra invece arrivare ormai fuori tempo massimo rappresentando il canto del cigno, ma rauco e senile, di un autore arrivato alla mèta ormai stremato, messo in ginocchio dalla sfortuna ma anche dalla sua irrefrenabile ambizione. Sia chiaro: c’è qualcosa di epico e persino di commovente nell’ostinazione da parte dell’autore di portare a compimento l’opera sognata tutta la vita e, in questo senso, non si può fare a meno di volere un po’ di bene a questo film ed essere contenti che, a differenza del destino toccato a Orson Welles (il cui Don Quixote non ha mai visto la luce in una versione accettabile), alla fine esso sia stato compiuto in una versione curata in tutto e per tutto da colui che lo aveva concepito.
Tuttavia, senza dover aspettare che tutti i 132 minuti di visione siano consumati, ci si accorge subito di trovarsi di fronte ad un oggetto sbrindellato e decisamente fuori controllo, un racconto troppo discontinuo e impacciato per suscitare una reale ammirazione, che sembra avanzare più per accumulo di situazioni che per reale coesione narrativa (o metanarrativa). Sebbene qua e là non manchi di fascino nel suo barocchismo pienamente à la Gilliam, a prevalere è la sensazione di un’opera che s’ingolfa e s’inceppa troppo spesso, destinata a una continua ripartenza, e dove gli attori, più che guardare a Cervantes, sembrano essere pirandellianamente in cerca d’autore. Adam Driver e Jonathan Pryce appaiono spaesati e poco convinti così come le troppo fragili figure di contorno, sia maschili che femminili (francamente indigeribile l’Alexei Miiskin, interpretato dall’attore spagnolo Jordi Mollà, anodine la co-protagonista Joana Ribeiro e Olga Kurylenko in versione femme fatale bionda), non sono purtroppo capaci di vivacizzare il film. Qualche motivo di curiosità suscita la descrizione del connubio tra Toby e il tirannico produttore, interpretato da Stellan Skarsgård, che sembra adombrare il difficile rapporto del regista con Paulo Branco. Ma non sembra davvero bastare.
Confuso e un po’ goffo quando prova a inserire nella narrazione le dimensioni metanarrativa e metacinematografica, L’uomo che uccise Don Chisciotte trova così i suoi momenti migliori quando il regista-demiurgo si abbandona alla sua maniera alle fantasmagorie più sfrenate riuscendo a regalare ai suoi fans un finale a suo modo lirico quando, affermando la sua definitiva sconfitta, organizza la più spettacolare delle uscite di scena. Nel sancire la vittoria necessaria delle creature sul creatore e il trionfo dell’infinita riproducibilità delle storie contro la caducità di chi un tempo le concepì, l’autore può infine andare a schiantarsi felice contro i mulini a vento: ciò che conta è che Don Chisciotte e Sancho Panza vivano per sempre, anche se possono cambiare pelle e persino sesso, e che il mondo abbondi di Dulcinee da onorare e di giovani donzelle da salvare. Insomma, L’uomo che uccise Don Chisciotte è un commovente disastro.
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