L’Alienista, l’estraneo che è in noi
Di storie costruite intorno efferati serial killer dai fantasiosi e perversi metodi omicidi non ne sentivamo certo la mancanza, ma l’angolazione proposta dal serial della TNT del gennaio 2018, in onda su Netflix, oltre alla qualità non comune della sua messa in scena, riescono a farci ricredere lavorando su di una tematica tra le più usurate, quella della caccia al maniaco senza volto.
La dicitura esplicativa all’inizio di ogni puntata ci introduce alla figura medica che si fa strada nella rigida cultura tradizionalista di fine ‘800, il pioniere della moderna psicanalisi, che, operando nel campo di coscienze ritenute “aliene” a sé stesse, abbozza una prima sommaria mappa dell’inesplorato territorio della psicologia del profondo.
Il nostro protagonista è dunque un Alienista, guardato con un misto di sospetto, sufficienza e disagio dai suoi contemporanei, non per questo meno utile alle forze dell’ordine per fare luce in casi dove la ragione comune si perde. Nello specifico argomento di questa prima stagione, tratta da un romanzo di Caleb Carr, s’intrecceranno in maniera inestricabile aberrazioni psicologiche e sociali in un affresco storico ricostruito con rigore e gusto della citazione, in una vicenda che coinvolge figure immaginarie e personaggi reali.
L’innesco del racconto è il ritrovamento del cadavere di un ragazzo orribilmente mutilato, che all’orrore delle sevizie subite aggiunge al tutto un elemento di ambiguità e trasgressione, ossia il fatto che indossi abiti femminili, trattandosi di un prostituto che esercita in uno dei tanti postriboli newyorckesi.
In un atmosfera e uno scenario di fine secolo ricostruito con fedeltà nei suoi alti contrasti di estrema ricchezza e miseria più nera, veniamo introdotti ai protagonisti della serie che alternano con una sapiente miscela figure inedite a stereotipi plausibili e indispensabili allo sviluppo del racconto.
Sul fronte della novità, di sicuro si è catturati dal disegnatore John Moore (interpretato da Luke Evans), un fascinoso e tormentato dandy, attratto dalla sordida vita dei lupanari e braccio destro del protagonista, il dottor Laszlo Kresler. Equivalente grafico di un fotoreporter, Moore si occupa di fornire report visivi laddove le limitate lastre fotografiche sono insufficienti, offrendo la propria amicizia e servigi al dottor Kresler, un carismatico e complesso Daniel Brühl, già visto nel bellissimo, fantascientifico Eve, dello spagnolo Maìllo.
Un po’ santone, un po’ scienziato come Georg Groddeck, e altrettanto anticonvenzionale, Laszlo Kresler opera nel mistero dell’animo umano con umanità e veemenza, tradendo puntata dopo puntata una personalità a sua volta problematica e carica di ombre. Coi suoi modi distaccati, la recitazione controllata, lo stile impeccabile, Brühl ritrae un personaggio che partendo da un archetipo conosciuto (dal dottor Tavenier di Dion Fortune, al moderno profiler) scava negli strati più profondi delle sue certezze, mostrandoci con queste gli aspetti contraddittori di un epoca in cui si scontrano innovazione e conservatorismo, mostrando i limiti di una cultura ancora profondamente legata ai suoi vecchi valori.
La terza interprete principale della detection è una giovane collaboratrice della polizia, Sarah Howard (una Dakota Fanning, brava e calzante) che assolve un ruolo decisivo nella squadra di Kresler, sia per quanto riguarda la detection pura, sia per mostrarci la condizione femminile del tempo, soggetta a discriminazioni professionali e umane, dalle quali cerca di affrancarsi con una logica ferrea quanto il proprio carattere. Il contesto in cui si muovono gli attori è una New York nebbiosa e lurida, riprodotta nei set di Budapest con efficacia sorprendente, dalla scenografia alla fotografia calibratissime, sotto la direzione di una regia dal ritmo lento e analitico che dell’amore del dettaglio fa la propria peculiare cifra narrativa.
Le indagini che proseguono sul piano fisico della ricerca dell’assassino e su quello, più sottile, delle sue motivazioni recondite, portano lo spettatore a inoltrarsi nei gironi danteschi dei bordelli dove vengono sfruttati i giovani travestiti e in questo sottomondo di vede in filigrana l’intreccio di interessi che incrocia la malavita e l’alta società nel loro gioco di equilibri rivolti a una sola cosa, la gestione del potere. È a questo potere, servito con diligenza dall’ex capo della polizia Byrnes (Ted Levin), che si piega del tutto il corrotto capitano Connor (David Wilmot), in pieno contrasto con l’onestà e il coraggio del giovane commissario Theodore Roosvelt (Brian Geraghty) ancora lontano dalla sua futura carica di Presidente degli USA, mentre l’olimpico mondo dei reggenti cittadini trama e agisce tramite i maneggi del magnate J.P. Morgan, interpretato da un maturo e sempre più sinistro Michael Ironside.
La qualità del racconto, l’ottima resa della direzione, oltre al casting perfettamente indovinato sul piano storico con una galleria di volti ritagliati con cura dalla ritrattistica del tempo, fanno sì che l’alienista appassioni e sorprenda intessendo misteri, spalancando porte su luoghi oscuri e accompagnandoci in una realtà dove le ingiustizie sociali sono omicide quanto la furia di uno psicopatico, a suo modo prodotto degenere della loro assurdità.
Vicino a produzioni in costume come Penny Dreadful, ma d’impianto rigorosamente realistico e privo dell’estetica da gioco letterario, pure splendida, del serial britannico, l’Alienista sposa un discorso più complesso e critico, rivelandosi una sorpresa riuscita nella variegata vetrina di Netflix. I territori oscuri dell’animo umano sono ancora luoghi dove aspettarci imboscate a tradimento, per inoltrarsi nei loro corridoi bui questa storia c’insegna quanto sia utile non dimenticare la lanterna della scienza (e soprattutto un buon revolver).