25 anni senza Federico Fellini, il maestro del “gran finale”
Esattamente venticinque anni fa se ne andava Federico Fellini, dopo una lunga degenza ospedaliera durante la quale ancora oggi si fa davvero fatica a pensare al suo cervello in encefalogramma piatto. Difficile oggi dire o scrivere di un autore di grandezza così incommensurabile senza correre il rischio di apparire ripetitivi e stucchevoli nella riproposizione di discorsi triti sul “grande visionario”, sul “più premiato regista italiano della storia del cinema”, autore di un cinema barocco, quasi tutto pensato e studiato in quella Cinecittà che è stata un po’ la sua seconda casa, il suo regno verrebbe da dire se questa definizione non risultasse stonata per un autore che non aveva alcuna ambizione di farsi sovrano. Basterebbe forse quello che di lui disse Milan Kundera quando ebbe a dichiarare che la sua opera può essere messa sullo stesso piano di quella di Pablo Picasso e di Igor Stravinskij, e costituisce il punto più alto dell’arte moderna.
Per chi scrive, Fellini è anche l’autore di alcuni dei più splendidi finali della storia del cinema, grazie anche al fondamentale apporto in sceneggiatura di menti come quelle di Ennio Flaiano, Tullio Pinelli, Brunello Rondi, Bernardino Zapponi, Tonino Guerra. Come si può dimenticare la partenza di Moraldo ne I vitelloni quando l’uomo immagina i corpi dormienti dei compagni che restano, osservandoli idealmente come se li stesse guardando dal finestrino del treno in cui è seduto e che ha appena lasciato la stazione? Una sequenza talmente bella da essere citata recentemente nel bellissimo Civiltà perduta di James Gray.
Procedendo cronologicamente, si arriva alla soave Giulietta Masina de Le notti di Cabiria quando, circondata da un gruppo di giovani che avanzano celiando, la candida prostituta ritrova la serenità appena perduta e ci guarda per pochi istanti, in maniera fuggevole e quasi impercettibile, regalandoci uno dei più bei sorrisi della storia del cinema. Se Cabiria alla fine ritrova in parte la sua speranza, lo stesso non si può dire per Marcello nel finale de La dolce vita, opera nerissima e cimiteriale, vero e proprio spartiacque del cinema non solo felliniano. Storia di un naufragio esistenziale, il film si apre con il monito religioso della statua di Cristo che incombe sulla città per terminare con una sorta di richiamo spirituale, ormai inaudibile, simboleggiato dalla giovane ragazza bionda, sorta di donna-angelo, la cui purezza è ormai irraggiungibile per il protagonista ormai perduto e condannato al suo destino di fallimento e ripetizione. Marcello Rubini anticipa il Casanova di Donald Sutherland in un film che dialoga con il capolavoro del 1960 e dove, in un’altra mirabile sequenza che precede i titoli di coda, il grande amatore, a differenza del personaggio interpretato da Marcello Mastroianni, riesce a raggiungere la creatura inseguita che si rivela essere però nient’altro che una bambola meccanica.
In un altro formidabile dittico, 8 e ½ e il sottovalutatissimo Giulietta degli spiriti (capolavoro sommerso, liquidato dai più come una sorta di 8 e ½ al femminile), Guido Anselmi e Giulietta Boldrini combattono contro i propri demoni interiori: il primo è in piena crisi creativa ed esistenziale, la seconda (che è anch’essa un’artista, una scultrice, dettaglio tutt’altro che trascurabile e non sempre ricordato) deve combattere con le “voci” e i fantasmi di un’infanzia piena di complessi, mitigata solo dall’affettuosa figura del nonno scapestrato e anarcoide. Spesso viene citata la famosa danza finale del film oscarizzato (per il grande riminese, era la terza statuetta) dopo l’altrettanto celebre frase “La vita è una festa, viviamola insieme” (che sancisce la “guarigione” del protagonista) ma per chi scrive è assai più potente la calata dal cielo del Nonno che viene a salvare Giulietta dall’assedio degli “spiriti” del titolo prima di rivolgere alla nipote un monito indimenticabile e liberatorio: “Non trattenermi. Anche io non sono altro che una tua invenzione: tu invece sei la Vita!” [il video è riportato in calce a questo contributo].
Un vero e proprio “gran finale” è anche quello del funerale ne I clowns, realizzato per conto della Rai nel 1970. Urla, singhiozzi e fuochi d’artificio preparano le esequie del pagliaccio Fischietto in quello che è uno dei più straordinari, dissacranti e grotteschi sberleffi alla morte mai visti sullo schermo. Si tratta di una chiusura che sarebbe immensa già così ma alla quale Fellini aggiunge un’ulteriore sorpresa: dopo il funerale che ha raggiunto la sua apoteosi ludica e ridanciana, sulla pista si fa silenzio. Un anziano clown racconta il “numero” che eseguiva una volta con il suo compagno di scena Frou-Frou e che consisteva nel chiamare a gran voce Frou-Frou senza che il suo compagno potesse rispondergli perché deceduto. Allora, il clown aveva un’idea: cominciava a suonare la tromba finché il compagno gli rispondeva. La scena continua e si conclude con la comparsa in scena di Frou-Frou mentre le luci e la musica pian piano si spengono e si affievoliscono. I due clown lasciano la pista in quella che è la messinscena cinematografica di un momento di vera e propria grazia e spiritualità, dove due mondi situati in dimensioni parallele e separate possono riunirsi grazie alla funzione mediatrice dell’arte.
Viene da chiedersi che cosa penserebbe Fellini oggi se gli fosse toccato in sorte di vivere nei nostri chiassosi giorni, che idea si farebbe fatto di un’epoca dominata dall’urlo e dallo schiamazzo e da una velocità forsennata che spesso si riduce, a conti fatti, in un girare in tondo, e che ha coinciso con un arretramento morale e intellettuale che pare quasi irreversibile. La risposta è che, in realtà, l’ultimo cinema del Maestro ha molto insistito, e per certi versi, preconizzato questi eventi: E la nave va è un racconto perfetto dello scollamento della società e del suo andare verso il naufragio inevitabile, così come il magnifico Ginger e Fred, altro film introverso e desolato, affondava il bisturi dentro il corpo putrescente della sempre più predominante e invasiva società dello spettacolo. Ci aveva già pensato, eccome, Federico: ecco perché nel suo congedo, La voce delle luna, attraverso la voce del folletto Benigni, l’ultimo e il più estremo dei suoi alter-ego, chiedeva soltanto un po’ di silenzio.
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