Vegetali, ma non troppo. Piante carnivore, fameliche, senzienti
L’orchidea era stata spedita con gli oggetti personali del suo amico, che aveva trovato una morte solitaria e misteriosa nella spedizione. Oppure tra un lotto di merce varia, “non classificata”, alla chiusura dell’asta. Non ricordo quale, ma fu certamente una delle due cose; oltretutto, anche le sue radici secche, scure e inerti davano all’orchidea un aspetto sinistro. Col suo mazzo di appendici frastagliate, sembrava una mano protesa, orrendamente nodosa, o un volto minaccioso e grottescamente baffuto. Non avreste capito che tipo di orchidea fosse.
(John Collier – Pensieri Verdi, 1932)[1]
[1] Traduzione di Fabio Feminò, in Vivono di notte- AA.VV. a cura di Dashiell Hammett, Ed. Mondadori 1990
Giorno dopo giorno, estate dopo estate, attraverso incendi, inondazioni, insulti, da secoli la famiglia Baskin aveva curato la vite. Nessuno sapeva con precisione quanti anni avesse la vite, chi l’avesse piantata o chi avesse dato l’incarico al primo Baskin di curarla; quando i coloni erano arrivati nella valle, la vite era già li. Nessuno sapeva chi avesse costruito l’immensa serra che la conteneva, o chi mandasse ogni autunno gli autocarri per portare via il raccolto.
(Kit Reed – La vite, 1967)
Le circa 600 specie di piante carnivore oggi conosciute sono tutte di tipo erbaceo, e quindi di dimensioni relativamente piccole. Come la stessa Dionea, di certo la più iconica e conosciuta tra esse, con le sue foglie dagli orli dentati e la chiusura a scatto che le fanno assomigliare davvero a delle bocche fameliche pronte a mordere; essa di solito sta comodamente in un piccolo vaso, e le sue trappole possono catturare soltanto minuscoli insetti (da cui il suo nome popolare “Venere pigliamosche”). Solo alcune varietà di Nephentes dagli ascidi (le caratteristiche foglie modificate a forma di brocche, ripiene di acqua ed enzimi digestivi) di dimensioni molto grandi, sembra possano catturare anche piccoli vertebrati come lucertole e uccelli, in qualche caso persino ratti. Si tratta comunque di casi sporadici che si pensa riguardino animali già in cattive condizioni di salute e per questo motivo impossibilitati a liberarsi dalle trappole in cui sono malamente incappati. Tuttavia, questi piccoli e spesso così delicati miracoli dell’evoluzione vegetale, sin dalla loro scoperta hanno affascinato non solo i naturalisti e gli studiosi di botanica, a cominciare da Charles Darwin, che fu il primo a dedicare loro un trattato organico nel 1875. Queste strane creature che, con il loro nutrirsi cibandosi di altre forme di vita e le loro sia pur limitate capacità di movimento e interazione con gli stimoli esterni, sembrano esser a metà tra l’esistenza vegetale e quella animale, hanno suggestionato, sin dalla loro scoperta, la fantasia dell’uomo, dando origine a leggende spaventose e, successivamente, nell’età moderna e contemporanea, ad alcuni pregevoli racconti e romanzi del terrore.
È possibile che i rinvenimenti di piante carnivore di dimensioni superiori alla media, complici forse le particolari condizioni climatiche delle regioni tropicali, siano all’origine di leggende come quella dell’Albero mangia uomini del Madagascar o dello Ya–te-veyo. In entrambi i casi, si tramandano delle testimonianze tardo-ottocentesche di sedicenti esploratori (tra cui il farlocco Karl Liche, il quale avrebbe osservato l’altrettanto inesistente tribù malgascia degli Mkodo), nel tempo rivelatesi poi delle costruzioni letterarie a scopo sensazionalistico. Addirittura gli Mkodo avrebbero offerto, secondo la testimonianza dell’esploratore tedesco, sacrifici umani al malvagio albero Queste creature vengono descritte come forme arboree dotate di tronchi e rami dall’aspetto tentacolare, in grado di catturare animali di grossa taglia e persino esseri umani malauguratamente avvicinatisi troppo alla pianta, i quali vengono avvolti nelle spire vegetali con movimenti repentini. Lo Ya–te-veyo in particolare deriverebbe il suo nome dal fatto di emettere un suono sibilante che ricorderebbe la frase spagnola “Già ti vedo”. Altra analoga leggenda riguarda il “Devil’s Snare” o “vitigno vampiro”, che sarebbe un rampicante succhiasangue diffuso in Nicaragua, sempre riportato in resoconti giornalistici di dubbia affidabilità verso la fine dell’800. Grazie alle sue radici aeree munite di ventose esso sarebbe stato in grado di dissanguare rapidamente animali di grossa taglia e gli sventurati individui che si avvicinavano troppo al suo raggio di azione. Sulla scorta di queste dicerie, nella prima metà del secolo scorso abbondano i resoconti sensazionalistici provenienti da lunghi esotici e ancora in parte sconosciuti e misteriosi per la società europea e statunitense, soprattutto sulle pagine di rotocalchi come The American Weekly: dal Madagascar alle Filippine, vi è un proliferare di articoli su uomini e donne caduti preda di queste misteriose mostruosità vegetali.
Nella narrativa fantastica molte delle prime storie di vegetali carnivori o vampiri hanno per protagoniste delle orchidee, forse per l’aspetto carnoso delle foglie e dei fiori di molte delle varietà selezionate nel tempo, oltre che per il proverbiale profumo che esse emanano, intenso e inebriante al punto da risultare quasi ipnotico. Uno dei primissimi esempi è La fioritura della strana orchidea, di H. G. Wells, pubblicato nel 1895. In esso, forse raccogliendo la suggestione derivata proprio dal Devil’s Snare, cui abbiamo accennato poc’anzi, si fonde brillantemente il tema della pianta carnivora con quello del vampirismo, narrando la storia del timido Winter-Wedderburn, appassionato di orchidee, che rischia quasi la morte quando nella serra che ospita la sua collezione entra un nuovo e misterioso esemplare, un rizoma grinzoso rinvenuto sotto il cadavere di un suo conoscente che gli ricercava esemplari rari. La strana orchidea, si scoprirà poi, cresce e prospera grazie al sangue umano, e lo sventurato collezionista sarà salvato in modo fortunoso da una orribile fine. Sulla scorta dell’autorevole esempio di Wells, a cavallo tra Ottocento e Novecento è tutto un proliferare di racconti con protagoniste piante mangia uomini nel settore della “proto-fantascienza” pubblicata sulle riviste popolari del mercato anglosassone, con esempi che spesso richiamano le suggestive leggende tropicali sopra menzionate: Celebre è il racconto The Devil Three of El Dorado di Frank Aubrey (1897), ambientato sull’inaccessibile (al’epoca) altopiano sudamericano di Roraima; Sulla stessa falsariga The Purple Terror (1899) di Fred Merrick White, storia di ambientazione cubana che richiama la leggenda del Devil’s Snare. Questo racconto è tradotto anche nel nostro paese grazie alla pubblicazione per la Mondadori dell’antologia Science Fiction by Gaslight a cura di Sam Moskowitz (Il futuro era già cominciato – 1990), in cui è contenuto anche La pianta cannibale del Professor Jonkin (1905) di Howard Roger Garris, racconto brillante dai toni parodistici, ha invece per protagonista un esemplare di Nepente che viene fatto crescere a dismisura attraverso opportune cure da giardiniere e una dieta a base di porzioni di carne sempre più generose.
Ricalca in modo quasi pedissequo l’antefatto della storia di H.G. Wells, ma con uno sviluppo più grottesco, il racconto Pensieri Verdi di John Collier del 1932. L’orchidea protagonista, tuttavia, lungi dal limitarsi a vampirizzare le creature animali, riesce ad assorbire in qualche modo la stessa coscienza e identità delle sfortunate vittime, che vengono poi incarnate nei suoi strani fiori i quali, quando sbocciano, ne rivelano le sembianze della testa. Così accade allo sventurato Signor Mannering, collezionista di piante di mezza età. Il racconto si muove sul filo di una ironia macabra e grottesca, in quanto tale spunto fantastico si inserisce in una vicenda di astio familiare a lungo covato, e nel finale il povero Mannering, la sua sfortunata cugina e il gatto di quest’ultima, tutti assimilati dall’orchidea, si trovano alla mercé di un loro avido e degenerato nipote, finalmente libero non solo di disporre dei loro averi, ma anche di vendicarsi delle umiliazioni in precedenza subite approfittando del loro stato di vegetali. Da questo racconto nel 1960 il regista Roger Corman trasse (molto liberamente) il film La piccola bottega degli orrori, opera che diede origine a un fortunato musical e a un remake degli anni ’80 ispirato a quest’ultimo più che alla pellicola originale del 1960. In questa trasposizione, che ospita il giovanissimo Jack Nicholson in un piccolo ruolo, l’orchidea vampira diventa un voluminoso fiore in grado di parlare, oltre che di nutrirsi di carne e sangue, con cui si confronta Seymour, imbranato commesso di un negozio di fiori.
La ben nota somiglianza del tubero dell’orchidea con gli organi riproduttivi maschili, assieme al carattere afrodisiaco(vero o presunto) del suo profumo e della farina ricavata dai suoi tuberi, ha probabilmente ispirato una delle più originali variazioni sul tema che troviamo nel racconto Il primogenito di David Campton: Il bieco collezionista di piante descritto in questa storia, oltre a selezionare con i suoi incroci delle fameliche mangiatrici di carne umana, per soddisfare il suo desiderio degenerato di sperimentazione scientifica ha creato nella sua serra una misteriosa orchidea dal fallico fiore; Lo scopo è farle concupire la giovane moglie del nipote, e il racconto è pieno di dettagli macabri e morbosi, con un finale terrificante e d’effetto.
Potrebbe essere vagamente ispirato alla leggenda del Devil’s Snare anche il suggestivo racconto di Kit Reed La vite. Vi si narra, in una ambientazione non specificata ma che si suppone America rurale, di una famiglia che da tempo immemorabile, con cura quasi religiosa, coltiva una gigantesca vite. Attorno a questa coltivazione inusuale è cresciuta e ha prosperato nel tempo una comunità umana che dipende in larga parte dal forte turismo di cui è oggetto la bizzarra pianta. Lungi dal limitarsi a fagocitare in senso metaforico l’esistenza della famiglia Baskin, la vite si rivelerà malevola, autocosciente e soprattutto assetata del sangue dei suoi adepti, fino a sterminare l’intera famiglia. Nella parte finale del racconto il rampollo superstite dei Baskin scenderà in guerra contro la vite cercando di darla alle fiamme, in un crescendo drammatico gestito in modo magistrale dall’autrice fino all’amarissimo e paradossale finale.
Altro celebre esempio, questa volta in forma di romanzo, è quello di John Wyndham con Il giorno dei trifidi (1951). Si tratta di una nuova forma di vita vegetale, forse creata in laboratorio, che inizia a diffondersi sulla Terra proprio in concomitanza con una calamità di proporzioni planetarie: una pioggia di meteoriti che rende ciechi la maggioranza degli esseri umani. L’umanità disastrata e privata del bene della vista si ritrova così assediata dalla minaccia di questi vegetali semoventi che uccidono con una sorta di pungiglione avvelenato. Anche quest’opera ebbe una fortunata e memorabile trasposizione cinematografica, L’invasione dei mostri verdi (1963), diretto da Steve Sekely e (non accreditato) Freddie Francis.
Il tema delle piante carnivore, predatrici e misteriose continua ad affascinare attraverso i disparati media narrativi anche in anni recenti. Abbiamo già visto che queste iconiche creature hanno molta presa in ambito cinematografico. Oltre alle trasposizioni ispirate più o meno liberamente a preesistenti opere letterarie già citate, talvolta la figura della pianta carnivora si presta a variazioni sul tema dal carattere più marcatamente orrorifico e soprannaturale. Una delle più riuscite opere in grado di sublimare l’antica suggestione per entità arboree dal carattere sacro e le reminiscenze dell’animismo e il paganesimo di origine silvestre è sicuramente L’albero del male, diretto nel 1990 dal grande William Friedkin. La storia narra di un gigantesco, millenario albero che è in realtà un’antichissima divinità che si nutre di neonati, utilizzando una sua adepta(in apparenza una affascinante baby sitter, in realtà una creatura misteriosa e repellente affine a una ninfa boschiva) per attirarli tra le sue fameliche fronde. E come dimenticare, nel celebre La casa di Sam Raimi, il bosco demoniaco che circonda il cottage del titolo, le cui radici stuprano l’inerme Cheryl in quella che è una delle sequenze più celebri e sconvolgenti del film? La suggestione ispirata dalle piante carnivore e autocoscienti sembra attraversare le epoche mantenendosi sempre viva. Dalle varie piante animate del film Jumanji a quelle che rilasciano una neurotossina che distrugge la razza umana portandola alla pazzia in E venne il giorno di M. Night Shyamalan, la “Minaccia Verde” sembra non smettere mai del tutto di turbare i sogni dell’umanità.