“Il vizio della speranza” di Edoardo De Angelis né angeli né demoni
Lungo il fiume scorre il tempo di Maria, il cappuccio sulla testa e il passo risoluto. Un’esistenza trascorsa un giorno alla volta, senza sogni né desideri, a prendersi cura di sua madre e al servizio di una madame ingioiellata. Insieme al suo pitbull dagli occhi coraggiosi Maria traghetta sul fiume donne incinte, in quello che sembra un purgatorio senza fine. È proprio a questa donna che la speranza un giorno tornerà a far visita, nella sua forma più ancestrale e potente, miracolosa come la vita stessa. Perché restare umani è da sempre la più grande delle rivoluzioni [sinossi].
Vincitore del Premio del pubblico all’ultima Festa del cinema di Roma e di ben due premi al Tokyo International Film Festival, arriva oggi nelle sale il quarto lungometraggio di Edoardo De Angelis, dopo il grande successo di pubblico e di critica del fortunato (e sovrastimato) Indivisibili. Come nel film precedente, il regista e sceneggiatore napoletano sceglie di ambientare la sua storia in un degradato “mondo a parte” nei pressi di Castel Volturno, dominato da un’umanità ridotta allo stato animalesco che si aggira tra pozzanghere e rifiuti in un universo in cui sembra non poter splendere mai il sole. Ed è proprio questo set sporco e inospitale la cosa migliore de Il vizio della speranza (titolo mutuato da una citazione dello scrittore Giorgio Scerbanenco, riportata in esergo), territorio in cui si aggira una moltitudine di freak e nel quale l’unico elemento di vitalità è costituito dalle donne destinate a deporre il “frutto del proprio grembo” nelle mani di sconosciuti “acquirenti”. Non è casuale da parte nostra l’utilizzo dell’ultimo verso della prima parte dell’Ave, Maria cattolica in quanto il film esibisce in maniera massiccia e decisamente eccessiva tutto un armamentario di simboli che rimandano, a partire dai nomi dei personaggi (oltre alla protagonista Maria, abbiamo Fatima e Virgin), direttamente al mondo della religione fondata da Gesù.
Parte tutt’altro che male Il vizio della speranza con un piano-sequenza molto bello che segue Maria, una sorta di Caronte in abiti femminili interpretata con impegno da Pina Turco, mentre va a svolgere una delle sue “missioni” che costituiscono il modo in cui prova a sbarcare il lunario e sostentare la sua famiglia. Dal punto di vista registico, De Angelis lavora bene la materia a sua disposizione, e c’è da dire che, preso sequenza per sequenza, il film non manca di momenti riusciti (uno tra tutti – bellissimo – il “matrimonio povero” di una delle ragazze che annuncia alla protagonista di avere contratto una grave malattia). Tuttavia, a lasciare molto perplessi è la scarsa compattezza dell’insieme, la mancanza di svolte narrative credibili, le azioni messe in atto dai personaggi che compiono trasformazioni psicologiche repentine e poco attendibili, senza che una sceneggiatura a dir poco reticente si preoccupi di preparare adeguatamente il terreno al mutare degli eventi e di caratterizzare bene le varie figure che ruotano intorno alla protagonista.
Nella stessa rappresentazione degli eventi, inoltre, si ha l’impressione che il regista e il suo co-sceneggiatore, il “sorrentiniano” Umberto Contarello, non abbiano abbastanza coraggio per affondare veramente i colpi lasciando in superficie una reale rappresentazione del male e una descrizione a tinte fosche della cattiveria del microcosmo messo in scena. Per fare un esempio, le ragazze (tutte straniere) appaiono più complici che vittime del proprio destino senza che lo script si preoccupi di sottolinearne in qualche modo il dolore o la rassegnazione, e senza che vi sia un reale confronto/scontro tra i personaggi, una mancanza cui spesso si supplisce con battute talvolta affilate talaltra ridondanti, affidate a un’istrionica e bravissima Marina Confalone, nel ruolo del “cattivo”. Trovata, come detto, un’ottima ambientazione, l’impressione è che De Angelis non si preoccupi di svilupparne tutte le potenzialità, forse troppo preoccupato di curare le singole scene a danno della coesione dell’insieme con le bellissime canzoni di Enzo Avitabile a fare, soprattutto nella seconda parte del film, da unico collante.
Infine, nella parte finale l’inflazione dei succitati richiami diretti alla simbologia cattolica finiscono per diventare stucchevoli facendo scivolare il film nel ridicolo involontario, in particolare nell’invocazione lanciata da Carlo Pengue, principale personaggio maschile del film (e l’unico, insieme al ginecologo), anch’egli caratterizzato con troppa approssimazione, in un finale rocambolesco e forzato nel quale emerge che, a conti fatti, l’elemento teologico rischia addirittura di tarpare le ali a una materia potenzialmente dirompente, ma annacquata da questa inutile sovrastruttura.
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