Torino 36, Santiago, Italia di Nanni Moretti: quando eravamo “brava gente”
Dal settembre 1973, dopo il colpo di stato del generale Pinochet, l’Ambasciata italiana a Santiago ha ospitato centinaia e centinaia di richiedenti asilo. Attraverso interviste ai protagonisti si racconta la storia di quel periodo drammatico, durante il quale alcuni diplomatici italiani hanno reso possibile la salvezza di tante vite umane [sinossi].
“Non era la solidarietà solo dei partiti politici, era la solidarietà che quando andavo a lavorare a Modena, ogni tanto andavo con la mia bicicletta e c’erano delle persone che mi dicevano: ‘ehi ciao, sei cileno? Cosa sta succedendo nel tuo Paese?… Cosa possiamo fare? Cosa posso fare io come persona per salvare quelle persone dalla barbarie di Pinochet?“. Basterebbero queste parole, questo ricordo del professore Leonardo Barceló Lizana a chiarire il senso dell’operazione messa in campo da Nanni Moretti con Santiago, Italia: parlare del colpo di Stato in Cile dell’11 settembre 1973 e della terribile dittatura di Pinochet attraverso le interviste ad alcuni esuli cileni ospitati nel nostro Paese, e utilizzare quelle tragiche vicende per ragionare sull’Italia di oggi. Sono passati 45 anni dal giorno in cui il Presidente Salvador Allende veniva ucciso (che sia stato o meno un suicidio, poco importa perché mettere un uomo in condizione di togliersi la vita equivale ad assassinarlo) all’interno del palazzo presidenziale della Moneda, e sembra trascorsa un’èra geologica, un lasso di tempo tutto sommato esiguo ma durante il quale abbiamo assistito al progressivo smembramento della sinistra italiana e ad un ineluttabile imbarbarimento della vita sociale. Sarebbe infatti quasi impossibile oggi vedere qualcuno che chieda al profugo siriano, eritreo, somalo, etiope o burkinabè quale sia la situazione nel suo Paese in guerra, o fiaccato da fame e carestia, o soggiogato da dittatori spietati e sanguinari. Altrettanto aleatorio sarebbe provare a scovare una forza politica capace di costruire un’alternativa credibile all’incipiente razzismo, di concepire una qualsivoglia soluzione al problema epocale delle migrazioni.
Santiago, Italia (nelle sale dal 6 dicembre) è diviso in tre parti, nelle quali si descrivono i tre anni (1970-73) del governo Allende, gli eventi dell’11 settembre e i mesi seguenti che videro centinaia di persone transitare in maniera talvolta rocambolesca tra le sicure mura dell’ambasciata italiana a Santiago del Cile, coraggiosamente ospitate da diplomatici pronti ad assumersi importanti responsabilità, certi che, di fronte ad una situazione così drammatica, ci sarebbe stata (come in effetti ci fu) la solidarietà unanime di tutte le forze politiche, comprese quelle ostili al Partito Comunista. Le testimonianze, tra le altre, dei registi Patricio Guzmán e Miguel Littin, dei musicisti degli Inti-Illimani Horacio Duran e José Seves, dell’operaio David Muñoz, del grafico e muralista Eduardo “Mono” Carrasco, dell’artigiana Victoria Sáez, della giornalista Marcia Scantlebury (da brividi il suo racconto sulla torturatrice incinta che le chiede di aiutarla nella cucitura di un golfino per il suo bebè mentre la sta torturando) portano, da un lato, a rivivere quei giorni febbrili e concitati, dall’altro a descrivere una nazione, l’Italia, che sembra non esistere più e che allora diede invece grandissima prova di sé. Moretti non ha ovviamente l’ambizione di fare un racconto storico, una disamina particolareggiata degli eventi (per chi volesse approfondire l’argomento, la visione consigliata è la trilogia La battaglia del Cile dello stesso Guzmán), un resoconto che aiuti a capire come possa essere successo. Nessun mistero da svelare, nessun angolo buio da illuminare, nessun contorno da smussare: quello che accadde in Cile, nazione che mai prima di allora aveva conosciuto la dittatura, fu chiaro fin dal primo momento, e gli stessi carnefici non hanno mai potuto nascondere più di tanto le proprie colpe, limitandosi a giustificarsi (per così dire) dietro le solite stucchevoli scuse della “obbedienza agli ordini” e del “pericolo comunista”. Per questa ragione, appare anche forse inutile la loro presenza nel film, non tanto per ragioni di censura verso il punto di vista opposto ma semplicemente in virtù del fatto che non esiste una verità alternativa che aiuti a complessificare una vicenda sulla quale non esistono scuse né chiaroscuri.
Come annuncia il titolo, dunque, Santiago, Italia parla di due nazioni, del passato storico dell’una e del presente morale, prima ancora che politico, dell’altra. Il riferimento all’attualità è esplicitato in maniera palese e senza scorciatoie, e le parole dei sopravvissuti finiscono per avere la duplice valenza di commovente e commossa memoria, e di monito, in alcuni casi facendo riferimento diretto a quello che siamo diventati, alla nostra incapacità di prendere a cuore i destini altrui, alla sostanziale indifferenza verso le tragedie degli altri popoli, abbastanza paradossale in un momento storico in cui le distanze geografiche sono ormai annullate dai mezzi tecnologici. Non è didascalico, come potrebbe apparire, Santiago, Italia in quanto non può esserci didascalismo quando si dà voce a storie di reduci e di perseguitati, a chi ha saputo spendersi “perché ci sembrava la cosa giusta da fare” – come dice uno degli intervistati, e non è neanche schierato, a dispetto della dichiarazione di “non imparzialità” fatta da Moretti nel suo unico e, a dire il vero, superfluo, ingresso in scena durante la narrazione. Naturalmente, è ampiamente noto quali siano le frequentazioni politiche e l’appartenenza dell’autore di Ecce Bombo ma l’analisi del regista va al di là del supporto ad una parte politica o la pars destruens delle politiche dell’attuale Governo. Per essere chiari, non è l’attuale Ministro dell’Interno italiano il bersaglio della critica che scorre come un fiume carsico sotto la superficie del documentario ma la deriva degli abitanti di un Paese che, al tempo del golpe cileno, aveva approvato da poco lo Statuto dei lavoratori e pochi anni prima aveva combattuto la guerra partigiana, tanto da far dire, certamente con un po’ di esagerazione, a uno degli intervistati, l’imprenditore Erik Merino, che esso assomigliava al Cile che Allende sognava in quel momento.
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