A chi resta
di Eliana Petrizzi
È difficile spiegare cos’è la provincia e che significa viverci, perché ogni provincia è diversa dall’altra, e perché un conto è se ci sei nato, un altro è se ti ci sei dovuto trasferire, o peggio ancora se ci sei dovuto tornare dopo aver vissuto altrove. Io della mia provincia ho un’idea molto chiara a cui un poco mi sono arresa, perché ho capito che in fondo la provincia – più che un posto periferico specifico – è innanzitutto una categoria dello spirito. I suoi abitanti restano di solito imbrigliati in una rete di solitudini e di relazioni mancate. Incapaci e non desiderosi di incontrarsi veramente, otto volte su dieci sono ignavi e disfattisti, per vocazione personale prima e sociale poi. Il mestiere che gli viene meglio è quello di stare a guardare ciò che gli altri fanno, ma soprattutto quello che gli altri sbagliano, per trovare nei fallimenti altrui il conforto alla propria pochezza. Se poi gli altri riescono, se ce la fanno, è guerra aperta. Curiosi soprattutto del futile e dell’indiscreto, possono parlare per giorni degli eventi più infimi, spesso inventati di sana pianta o esagerati dalla maldicenza, riciclando la notizia in mille salse, come si faceva in guerra con le bucce delle patate. Gli abitanti affetti da questa pericolosa malattia dell’anima non gioiscono dei successi di chi gli è amico o concittadino, ma ne traggono lo spunto per meschine distanze. La provincia è un universo sfocato privo di un centro, che non ha più un’identità né paesaggistica né urbana; che ha scarsi entusiasmi e poca memoria. E a nulla serve correre nelle città vicine che, rammollite da una fama sbiadita, sono diventate se possibile ancora più provinciali della loro provincia.
Ma esiste anche tanta bellezza. Ci sono dalle mie parti paesaggi solenni e paesi remoti, che curano coi loro alfabeti elementari. Ci sono abitanti che riescono con fiducia e sacrificio a coltivare frutti faticosi, ma più saporiti di quelli cresciuti al sole scemo di una serra. Ci sono soprattutto poeti, scrittori e artisti, e poi giovani talenti in ogni campo, che la loro terra la raccontano con grazia, fervore e luce. Questa terra la conoscono bene; ne disperano a volte, ma le augurano ogni bene e lo aiutano, questo bene, militando sul posto. Non se ne sono andati. Se vanno, è per condividere la loro visione di questi luoghi nel mondo; poi tornano per fare una comunità che, se non può smuovere le calcolate impotenze della politica, sa almeno trasmettere opinioni che diventano progetti. La poiesis diventa in questo modo polis: un modo più gaio, e soprattutto più utile di vivere insieme la pratica creativa. A loro va tutta la mia stima, e la mia speranza.