“Un condannato a morte è fuggito di Robert Bresson”: il ritorno dell’uomo nel mondo
di Ludovica Soreca
“C’è sicuramente qualcosa di nuovo da scoprire nell’arte del film,
qualche cosa che si muove attorno a Un condannato a morte è fuggito”
François Truffaut
La storia raccontata in Un condannato a morte è fuggito di Robert Bresson è una storia vera. Non nasce, come era accaduto per i lavori precedenti del regista, da una materia letteraria precisa (è il caso del Diario di un curato di campagna, tratto dall’omonimo romanzo di Georges Bernanos) o da una sceneggiatura supportata da scrittori influenti come Jean Giraudoux per La conversa di Belfort e da Jean Cocteau per Perfidia. Prima premessa: la finzione sta tutta nella messa in scena, nel lavoro di trasposizione di una vicenda realmente vissuta, annotata nella breve cronaca autobiografica di André Devigny, soldato e membro della Resistenza francese, e pubblicata su “Le Figaro Littéraire” nel novembre del 1954 con il titolo Récit d’une évasion. Il racconto vero e proprio che mette a segno la condanna e il complesso percorso di detenzione-fuga scritto dello stesso Devigny era ancora in fase di progettazione quando Bresson maturò l’intenzione di farne un soggetto cinematografico. Il regista ne conosceva solo il testo breve. Dunque, il film prende corpo, in primo luogo, a partire da un fatto, da una traccia effettiva di realtà.
“Questa storia è vera. Io la racconto com’è, senza inutili ornamenti” è la didascalia iniziale del film e svela, già in apertura, la precisa concezione del reale che Bresson intende ribadire. E’ la dichiarazione che definisce l’opera e allo stesso tempo la giustifica, aprendo definitivamente le porte alla questione sulla forma, a quel modus operandi che si caratterizza come prassi e che ha come obiettivo primario la ricostruzione del fatto reale e la sua continua riproposizione in un una struttura sapientemente elaborata. Il maestro francese sfrutta la capacità dei singoli elementi compositivi accordandoli in molteplici direzioni e configurando una ricerca stilistica dove gli oggetti, i gesti, le parole, i rumori, assumono una vera e propria aura di sacralità. Inoltre, il montaggio e la sua manipolazione calibrata portano alla luce non solo i fili di una tensione che progressivamente viene introiettata per lasciare emergere i dati di una esperienza di vita nella sua connotazione concreta, materiale e insieme profondamente spirituale, ma anche la predominanza dei rapporti tra le immagini, tra i ritmi, le sospensioni che costituisce il più essenziale dei criteri di significazione di questo lavoro di découpage. Se è vero che la tensione e il ritmo caratterizzano primariamente il flusso della messa in immagine, anche la creazione dell’azione e talvolta il suo disinnesco contribuiscono allo sviluppo di una unità narrativa che trova legittimità solo a partire dai frammenti, in una totalità afferrabile solo per mezzo dell’unione dei particolari.
“Vorrei fare un film di oggetti e un film di anima. Cioè raggiungere la seconda attraverso i primi” ebbe a dichiarare il regista, e di fatto le cose, le persone, gli eventi assumono valore solo perché risultanti da una soggettività. Il visibile (e l’invisibile) vengono consegnati alle immagini secondo la prospettiva visuale di Fontaine, il condannato. Lo spettatore guarda e accoglie la realtà nel modo in cui essa viene vista e sentita dal protagonista. Sono le sue parole che ascolta, è sua l’anima che risuona. Ecco allora che l’astrattezza formale, il rigore con cui identifichiamo il cinema di questo grande cineasta del ‘900 si tramutano in una volontà accesa di caricare l’essere umano di un senso ulteriore a partire dalla dimensione reale in cui è collocato. Un condannato a morte è fuggito è dunque un film sulla forma, per quanto contenga una chiara volontà di criticare certe deviazioni della storia e mostri un accadimento importante della Resistenza francese: la prigionia di un partigiano nel carcere nazista di Montluc e la conseguente idea di fuga per sottrarsi alla condanna di morte.
L’occhio della macchina da presa, coincidente con quello del regista, scruta distaccato l’universo nel quale si muove Fontaine, performandolo in una messa in scena precisa, definita secondo i dettami del minimalismo bressoniano, termine con il quale si è soliti definire l’estetica del suo linguaggio filmico. Il risultato di questa operazione è la visione di uno spazio figurativamente inscatolato e claustrofobico nel quale apparentemente non c’è possibilità di salvezza. La cella finisce così per rappresentare un microcosmo che schiaccia l’individuo e cerca di trasformarlo in automa, in mero sopravvivente. L’immensa portata di questo film sta nella negazione di questa presa di coscienza, nel capovolgimento di quanto sembra porsi come immutabile: la resa in immagine della speranza, della capacità dell’uomo di sovvertire la realtà in cui è calato attraverso il lavorio dell’intelletto che è proprio di chi cova un desiderio di libertà e comprende a fondo il senso dell’esistere.
©RIPRODUZIONE RISERVATA – Ne è consentita esclusivamente una riproduzione parziale con citazione della fonte, Milena Edizioni o www.rivistamilena.it