Come può la filosofia contribuire al problema della migrazione? Dallo Stato-centrismo al diritto di coabitare – Prima parte
di Marco Antonio D’Aiutolo
Abbiamo il diritto di decidere con chi coabitare? Su cosa si fonda, dove nasce questo diritto? Sono le domande che si pone e a cui dà precise risposte la prof.ssa Donatella Di Cesare, nel suo Stranieri residenti. Una filosofia della migrazione. Pubblicato nell’ottobre del 2017, il libro della filosofa, saggista e docente della Sapienza offre spunti di riflessione, a mio avviso, necessari per poter cogliere e affrontare l’odierna questione dell’immigrazione nell’attuale panorama politico europeo e italiano.
Per ciò che riguarda l’Italia, la riflessione si rende più urgente soprattutto in seguito all’approvazione, mediante voto di fiducia, del Decreto Sicurezza, recante la firma del ministro dell’Interno, Matteo Salvini. Al ddl 840/2018, che già dal titolo chiarisce il suo intento (Disposizione in materia di sicurezza pubblica, prevenzione e contrasto al terrorismo e alla criminalità mafiosa), è stato accorpato quello sull’Immigrazione. Sebbene non sia questa la sede per un’analisi completa e, nello specifico, delle disposizioni in materia di concessione dell’asilo e per l’abrogazione della protezione per motivi umanitari (art. 1), vorrei puntare l’attenzione sull’art. 13. Questo articolo è stato fatto già oggetto di polemica da molti sindaci (di Napoli, Firenze, Reggio Calabria e Parma), tra cui quello di Palermo, Leoluca Orlando. È una Disposizione in materia di iscrizione anagrafica che recita: “Il permesso di soggiorno costituisce documento di riconoscimento”, ma non è un “titolo per iscrizione anagrafica”. Con esso non è possibile ottenere la residenza italiana, quindi i comuni non possono rilasciare la carta di identità e le iscrizioni a servizi come il Centro per l’Impiego per maggiorenni o le scuole per i piccoli. Un atto discriminatorio, osserva Orlando e ha messo uno stop al decreto “leghista”. In effetti, il ddl è l’espressione massima della politica del “tutti a casa propria” e dei porti chiusi, di cui il ministro Salvini, esponente della Lega Nord, si fa portavoce.
È all’interno di questo dibattito pubblico, giuridico e politico che si inserisce la riflessione della Di Cesare che, in un’intervista recente rilasciata a ildubbio.news (10 gennaio 2019), ha osservato: “Di fronte alla bancarotta etica del nostro paese, trasgredire le leggi è giusto”. “Dobbiamo avere un rapporto responsabile con la legge, chiederci sempre se questa sia legittima e giusta. Per questo dico che la disobbedienza può persino diventare un dovere”. E nell’editoriale sul Corriere della sera: “I cittadini non sono sudditi e non possono accettare supinamente una legge che, prima dei limiti di costituzionalità, ha superato quelli di umanità”. La rispolverata di un’antica pratica, la disobbedienza civile, si basa sul discorso più ampio del sovranismo e apre a una riflessione sull’immigrazione che Di Cesare rivolge sia ai leghisti e ai pentastellati sia alla sinistra politica e culturale, che assume argomenti sulla sicurezza, tipicamente di destra.
La domanda da cui parte la filosofa italiana nel suo libro è la seguente: cosa può offrire la filosofia in merito al dibattito politico? Cosa si può fare, in quanto filosofi, per delineare il problema della migrazione? Premesso che la filosofia non è politica e che la questione su come governare i flussi migratori non è un problema filosofico, ma politico, gli strumenti che la riflessione può offrire, come si diceva, sono utili per delineare le questioni. E, nel caso specifico, la filosofia insegna che il problema sull’immigrazione è mal posto, compromettendo così ogni possibile valida soluzione. Esso infatti si basa su un’ottica stato-centrica, assunta forse inconsapevolmente dai cittadini. Siamo spinti, in quanto tali, a pensare e a riflettere su ciò che accade, non solo in termini migratori, ma anche dal punto del mondo globalizzato, dalla prospettiva interna dello Stato-nazione in cui viviamo. Si dà praticamente una sorta di complicità tra il cittadino e lo Stato. Questi fa leva sul primo garantendogli tutela e privilegi, in modo che – e a patto che – ogni cittadino e cittadina difenda lo Stato. Si crea così una dicotomia: dentro/fuori, per cui la domanda come governare i flussi? presuppone la sovranità del cittadino. Io, cittadino sovrano, decido come amministrare, chi accogliere e chi escludere, dando per presupposto il gesto discriminatorio dell’“io posso mandarti via”.
È su questo punto nodale che la Di Cesare ricostruisce il primo capitolo di Stranieri residenti, basandosi sul dibattito: confini chiusi/confini aperti. Fior fiore di filosofi, americani e tedeschi, difendono i confini chiusi e si appellano a tre principi: l’autodeterminazione dei popoli, l’identità o l’integrità nazionale, contaminate e pregiudicate da chi viene da fuori e, terzo, la proprietà. Questa coppia sovranità-proprietà è decisiva. Neppure la democrazia fa eccezione, soprattutto nella forma liberale. Perché nasce proprio all’interno dello Stato-nazione. Il che non significa andare contro una forma di governo democratica che, in un capitolo di un altro libro di Di Cesare (Marrani, 2018), viene elogiata. Il problema è lo Stato-nazione. E, in effetti, facendo propria la lezione di Hannah Arendt, osserva che, quando in Noi profughi del 1943, quest’ultima usa la metafora della “schiuma della terra” per dire che questa schiuma aumenterà, vuole intendere che il problema migratorio diventerà enorme e non ci sarà mai posto per i refugees in uno Stato-nazione.
Da tempo si sostiene che esso sia in crisi. Ma proprio per questo si è, per così dire, “incattivito”. La sua sovranità è indebolita e perciò alza ancora di più i muri. Esercita con più forza quel suo potere sovrano e fa appello ai cittadini finché difendano i confini statuari. Per Di Cesare, viviamo, quindi, in una nuova età: quella dei muri, detta anche dei campi di internamento. L’Europa, che non ha mai raggiunto quella forma politica post nazionale auspicata, è divenuta un coacervo di Stati nazionali che un po’ si spalleggiano e che un po’ sono in competizione tra loro. E l’Italia ha fatto del Mediterraneo un cimitero marino.
La proposta è allora di una politica dell’accoglienza. Ma deve andare oltre anche alla difesa dei confini aperti, altra faccia del liberalismo: come circolano capitale e merci, così dobbiamo circolare noi. Chi emigra, per tanti motivi intrecciati, non si muove perché vuole circolare liberamente nel pianeta. Cerca altre chance, un posto nella comunità e non un posto di lavoro. I confini aperti non bastano. Il problema va situato nel contesto epocale dello scontro Stato-migrante. Lo Stato ha a che fare con lo stare, il migrante si muove e ha la colpa originaria dell’essersi mosso e di pregiudicare così l’ordine Stato-centro del mondo.
Bisogna delineare la questione in altri termini. Uscire del tutto dalla dicotomia dentro-fuori. Pensare dalla prospettiva di chi arriva, descriverla nella misura del possibile. Sollevare, di certo, il problema di come collocarlo nel panorama attuale, ma senza trascurare il fatto appunto dello Stato-nazione, che il migrante smaschera, mostrandogli ciò che è: non un fenomeno naturale, ma storico. E per tracciare questa politica che vada al di là dei confini statuari è necessario, come osserva ancora Di Cesare in un’altra intervista su Letture.org, restituire “al migrante il suo statuto di straniero facendone tuttavia uno straniero residente”.
Come vedremo nella seconda parte di questo contributo, è grazie a questo statuto, che implica il superamento di un atavico modello di cittadinanza, così come dell’ottica stato-centrica, del sovranismo statuario e di una politica intesa come governance, ridotta a mera amministrazione e polizia, che è possibile rispondere negativamente alla domanda “possiamo noi decidere con chi coabitare?” A questo diritto di decidere, un’idea che è stata resa principio e realizzata nel modo più parossistico dal Terzo Reich, la Di Cesare sostituisce quello di coabitare, punto: cioè uno ius migrandi.