“Mouchette” di Robert Bresson: io la conoscevo bene
Il cinematografo è una scrittura con immagini in movimento
e suoni.
Nel film di cinematografo l’espressione è raggiunta attraverso rapporti di immagini e suoni, e non mimica, gesti o intonazioni di voce (di attori e non-attori.
Robert Bresson, Note sul cinematografo
di Anna Masecchia*
Una madre che sa di non avere molto da vivere prega per il destino dei suoi figli, ancora piccoli. Dopo questa prima statica inquadratura, i minuti seguenti di Mouchette (1967) di Robert Bresson dispiegano tutto il potenziale di una ricerca cinematografica che è scrittura fatta, come riportato dalla citazione in esergo, “con immagini in movimento e suoni”. Il tema del vedere che si fa spiare, l’elogio di un suggerire da preferirsi al dire, un narrare che rifiuta i rapporti di causa-effetto per perdersi nell’esperienza di passioni umane che lo spettatore deve contribuire a definire: tutto fa pensare alle riflessioni teoriche di Jean Epstein, a quel Bonjour cinéma che nel 1921 salutava la “verità” del cinema. Come ci ricorda Jacques Rancière nel suo La favola cinematografica, il giovane Epstein vedeva nel cinema il superamento della “favola” aristotelica, come insieme di azioni consequenziali che si inanellano verso una fine che è, comunque vada, sempre lieta. Il cinema racconta la vita, e la vita non è fatta di storie: così, l’intelligenza della macchina è quella di registrare i tanti movimenti che rendono densa la vita nel suo scorrere, anche quando il traguardo non è felice.
Nell’incipit citato, in un bosco, immersi nei suoni della natura, (non)vediamo un bracconiere che minaccia la sua preda e un guardacaccia che vigila sul suo operato. Le inquadrature sono strette, frammentano i corpi, lasciano indovinare piuttosto che ritrarre; ma si soffermano, allo stesso tempo, sui dettagli di un rituale che coglie nel segno, catturando l’animale vittima dell’astuzia e dell’inganno, ma anche della sua propria debolezza. Il rito feroce della caccia, la sopraffazione del debole: tutto viene reso attraverso inquadrature che celano più che mostrare, proprio quando ai campi medi si sostituiscono riprese ravvicinate, particolari, dettagli o primi piani straniati, in cui di un volto vediamo un occhio che guarda e poco più.
In Bresson anche i suoni sono fotogenici, e chiudere con Mouchette la prima parte di una rassegna su Bresson che si intitola L’invenzione del silenzio, sembra quanto mai appropriato (il film verrà proiettato domani 14 febbraio alle 20,00, all’ex Asilo Filangieri di Napoli, in vico Maffei 4). In questo film i suoni sono rumori di un quotidiano fatto di fatiche e stenti. Sono quelli della sopravvivenza giorno dopo giorno, senza gioia, senza speranza. Gli zoccoli troppo piccoli della piccola Mouchette sono assordanti e urtano il silenzio dell’aula scolastica dove le compagne signorine e beneducate hanno i capelli puliti e profumati. E solo lei, quando tutte le compagne cantano, resta in silenzio, inscenando una protesta muta in un mondo che non vorrebbe né saprebbe ascoltarla. Il canto delle allieve, un inno alla speranza in un mondo disperato, non può essere il canto di Mouchette, eroina di Georges Bernanos, da un romanzo del quale il film è tratto, ma figura sospesa tra lo sguardo cinico di Balzac e il naturalismo di Zola.
Se l’infanzia è negata diventa un luogo infernale. Ed è così l’infanzia di Mouchette, troppo bambina e troppo adulta insieme. La macchina da presa tende al basso: i travelling sembrano seguire i passi di un animale in gabbia, già condannato, in attesa di esecuzione. La selvaggia Mouchette, che lancia terra contro le compagne di classe più fortunate di lei all’uscita dalla scuola, ha spesso il volto rigato di lacrime, alterna la rabbia della frustrazione al dolore di non essere amata al di là di ciò che rappresenta: il povero che solleva, attraverso l’elemosina, la falsa coscienza piccolo-borghese.
Se l’uso fotogenico dei rumori rimanda a quello degli oggetti e dei volti nell’impressionismo francese, la scena in cui, la domenica mattina, Mouchette prepara la colazione ricorda quella di cui è protagonista la servetta di Umberto D. di Vittorio De Sica (1952). La modernità di Bresson nega lo sguardo nitido e a tutto tondo del cinema classico, ma mentre lavora sul tempo dilatato asciuga gli affetti: la macchina da presa inquadra di spalle, offre piani americani al contrario (dalle ginocchia in giù invece che in su). Ad essere caldi non sono i volti ma i rumori, come quello del crepitio del fuoco nella capanna in cui Mouchette si rifugia con il bracconiere Arsène. Il fuoco accompagna l’unico momento di tenerezza del film, in cui l’adolescente può finalmente cantare “Espérez plus d’esperance” mentre si prende cura dell’uomo, che la guarda riconoscente.
In questo procedere implacabile, quasi deterministico, verso il suo eterno presente, la protagonista bressoniana ricorda l’Adriana di Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli (1965). Mouchette non va via dal paese per cercare i riflettori in città. Non ha tempo di farlo, viene catturata prima, e la sua caduta, anticipata dalle riprese ad altezza suolo, non è dall’alto. Non arriva nemmeno a sfiorare quella modernità urbana di cui Adriana tocca la superficie nel film di Pietrangeli anche se possiamo intravederla durante la sequenza del luna park, in cui la dimensione sospesa di Mouchette, personaggio senza tempo, col suo vestitino e lo scialle di lana, si fa lampante. In entrambi i film, che seguono la parabola di un soggetto femminile che paga lo scotto di una società malata, il sonoro è diversamente centrale. E entrambi si chiudono con un suono: la rottura di un vetro; un tonfo nell’acqua. La “lei” di Così bella, così dolce (1969) raccoglierà il testimone da queste figure femminili ma a rappresentare la sconfitta di ogni speranza avremo un corpo al posto di un rumore. Un corpo amplificato dalla matericità del colore. Alla vittima sacrificale, al capro espiatorio, si sostituirà, così, il vuoto esistenziale di una contemporaneità nevrotica e votata all’entropia.
*L’autrice è Docente di Storia del cinema all’Università di Napoli “Federico II”
©RIPRODUZIONE RISERVATA – Ne è consentita esclusivamente una riproduzione parziale con citazione della fonte, Milena Edizioni o www.rivistamilena.it