“Il processo di Giovanna d’Arco” di Robert Bresson: storia di un femminicidio
Giovanna illustra una legge umana,
quella secondo la quale chi più perde più guadagna.
Per accedere alle grandi cose, anche terrestri,
bisogna perdere fino in fondo
Robert Bresson
Giovanna d’Arco è uno dei personaggi storici che hanno maggiormente affascinato il cinema, un’icona di coraggio e determinazione che si è meritata l’attenzione di molti grandi cineasti sin dai tempi del cinema muto. Si va dal celebre capolavoro La passione di Giovanna d’Arco di Carl Theodor Dreyer (che Robert Bresson non amava, considerando l’enfasi espressionista dell’interpretazione di Renée Falconetti troppo distante dalla sua idea di messinscena), al poco riuscito Giovanna d’Arco (1948) di Victor Fleming con Ingrid Bergman, che tornò poi a interpretare il personaggio nell’intrigante e sottovalutato Giovanna d’Arco al rogo (1954) di Roberto Rossellini (liquidato troppo sbrigativamente come operazione di semplice teatro filmato), fino ad arrivare al bellissimo dittico Giovanna d’Arco – Le battaglie e Le prigioni (1994) di Jacques Rivette e al sontuoso film di Luc Besson, uscito nel 1999. A differenza del suo quasi omonimo, l’operazione di Bresson, il cui film esce nel 1962 conquistando il Premio Speciale della Giuria e il Premio OCIC al Festival di Cannes, è naturalmente agli antipodi per quanto concerne le scelte narrative e stilistiche, come si vedrà più avanti.
Forse potrà apparire una forzatura, e probabilmente lo è ma, nei giorni che stiamo vivendo, è difficile sfuggire alla tentazione di commentare un’opera come Il processo di Giovanna d’Arco di Robert Bresson (che verrà proiettato giovedì 28 marzo alle 20,00 all’ex Asilo Filangieri di Napoli), attualizzandone i contenuti e riflettendo su temi come la libertà, il diritto di autodeterminazione femminile, la lotta contro i residui e le incrostazioni del patriarcato. Nel film, sesto lungometraggio diretto dal maestro francese, si assiste infatti al duello, tutto verbale, tra Cauchon, vescovo di Beauvais, e la “pulzella d’Orléans”, accusata di stregoneria. Un duello il cui esito è noto a tutti e avrebbe poi trasformato Giovanna in mito ed eroina, oltre a fare di lei la santa patrona della nazione francese.
Da un lato abbiamo dunque Giovanna, una donna libera che afferma il suo diritto alla fede, ad avere un rapporto con Dio al pari degli altri uomini, a combattere per i suoi ideali. Dall’altro lato, a fare da contraltare, l’occhiuta censura religiosa, retta da soli uomini, che non le credono e vogliono spingerla a confessare crimini non commessi, a riconoscere un suo presunto stato di minorità, negandolo il diritto all’autodeterminazione, plasmando e modellando il suo pensiero e, in buona sostanza, ordinandole chi deve essere e cosa le è permesso di pensare. Giovanna dovrà pagare per la sua disubbidienza in quello che sarà un femminicidio applicato a norma di legge da un tribunale misogino e bigotto.
Il processo di Giovanna d’Arco è tratto in maniera fedele dagli atti del processo che ebbe luogo dal 21 febbraio al 3 marzo 1431 ed è costituito da una serie di affilati e potenti scambi verbali tra l’imputata e il vescovo, sei confronti serrati e resi con straordinaria precisione e scansione del tempo cinematografico, che fanno de Il processo il film più “parlato” di Bresson, dove il regista adotta la tecnica di ripresa più semplice e abusata (il campo-controcampo), una scelta che si rivela funzionale a stabilire la diversità e l’alterità di Giovanna rispetto ai suoi giudici e a dare ritmo e rapidità all’azione. Parlando della sua eroina, Bresson la definisce “una grande scrittrice che non ha mai scritto una riga”, innalzando al rango di opera letteraria la sua difesa al processo, i cui atti sono trascritti da altri. Con splendido paradosso, quindi, si vede come le dichiarazioni della donna, considerate come le malìe di una strega e le menzogne di un’invasata, acquisiscono a distanza di tempo una verità storica proprio in virtù di quel lavoro burocratico che le aveva fedelmente riportate, trasformandosi in motivo di riabilitazione della condannata, e in accusa che si ritorce contro i suoi carnefici. Le parole di Giovanna, inverosimili quando vengono pronunciate dalla ragazza e ascoltate dai giudici, diventano verità una volta acquisito lo statuto di pagina scritta, e solo dopo che il tempo avrà dato a quelle dichiarazioni la possibilità di sedimentarsi e di farsi verità.
A proposito della lettura moderna del film di Bresson, c’è da dire che è proprio il regista a spingere verso questa lettura: infatti, all’interno della cornice narrativa e visiva, Bresson inserisce volutamente alcuni elementi moderni, come gli scarponi e il letto, appartenenti all’epoca di uscita del film, con lo scopo dichiarato di rendere attuale il discorso portato avanti nello svolgersi della narrazione. Infatti, al di là della storicità del contesto, Bresson vuole che la sua protagonista sia un’eroina il cui messaggio travalichi il tempo ponendola come esempio di donna resistente che rifiuta di farsi plasmare a immagine e somiglianza dei suoi persecutori. Giovanna contrappone la sua sagacia muliebre, sfoggiando una dialettica sottile e affilata, e si mostra capace di ribattere colpo su colpo ai suoi accusatori, ribaltandone la logica. Una trasgressione micidiale che non può che concludersi con la punizione della reproba e la sua condanna a morte.
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